E’ arrivato Honda al Milan e Galliani ha affermato ai media che sarebbe prematuro farlo giocare già da domenica contro il Sassuolo.
Neanche fosse lui l’allenatore o facesse parte dello staff tecnico…
Fosse lui a palpare la stanchezza o le sensazioni dei giocatori, a seguirli durante la seduta, a vivere la settimana in campo. Viene da sorridere, anche se in realtà per ciò che riguarda il neo acquisto del Sol Levante un problema legato ai fusi orari potrebbe sussistere: il così chiamato “jet lag”.
Ma cos’è il “jet lag”?
Esso (spesso indicato come “mal di fuso”) o disritmia, discronia o ancora disincronosi circadiana, è una condizione clinica che si verifica quando si attraversano vari fusi orari (di solito più di due fusi orari), come avviene nel caso di un lungo viaggio in aereo.
In questi casi, giunti a destinazione si è assonnati, stanchi o confusi. Il fenomeno si verifica a causa dell’alterazione dei normali ritmi circadiani; per ripristinarli, spesso viene utilizzata la melatonina. (fonte Wikipedia).
Quindi, la preoccupazione dell’Amministratore delegato e vice presidente rossonero non è poi così infondata; resta un fatto: si presume che certe scelte tecniche debba eseguirle solo ed esclusivamente l’allenatore…
La gravità delle manifestazioni del Jet lag può essere variabile e dipende da:
Numero di fusi orari attraversati: la probabilità di sviluppare il Jet lag aumenta proporzionalmente con il numero di meridiani attraversati.
Direzione del volo: il Jet lag si verifica solo in caso di voli trasversali, da ovest verso est e viceversa, e non quando si viaggia lungo lo stesso meridiano (nord-sud). Il disturbo si può avvertire maggiormente se si viaggia verso est, perché si “perdono” ore. Il problema del Jet lag è particolarmente pronunciato per i piloti di linea, gli equipaggi e chi viaggia con una certa frequenza. Le compagnie aeree hanno regolamenti volti a combattere la stanchezza dei piloti, causata da Jet lag.
Ora di partenza e di arrivo.
Fattori ambientali: la ridotta umidificazione dell’ambiente durante il viaggio aereo e la limitazione dei movimenti per periodi prolungati possono favorire la comparsa di alcuni sintomi del Jet lag.
Suscettibilità individuale: età, sesso e condizioni di stress.
Solitamente la pausa per le nazionali restituisce ai club i giocatori impegnati, solo poche decine di ore prima dei vari impegni. E in qualche modo questo influenza le scelte degli allenatori, costretti già, soprattutto quelli impegnati in Europa, a districarsi in turnover più o meno accentuati. In realtà in casi è difficile parlare di giocatori stanchi, la differenza sostanziale la fa il jet-lag.
La Squadra rossa tiene in volo con le mani un palloncino di quelli da gonfiare a bocca e nel contempo fa girare un pallone passandoselo di pianta(o interno piede) alternando piede e senso del giro. Il portiere avversario conta i giri effettuati.
Contemporaneamente la squadra dei blu effettua il percorso a staffetta : 1) salto ostacoli 2) slalom tra le aste 3) conduzione palla 4) cambio di direzione con palla 5) tiro in porta 5) cambio con il compagno successivo Obiettivo squadra rossa: effettuare più giri possibile senza far cadere il palloncino e senza sbagliare la trasmissione. Obiettivo squadra blu : a)effettuare la staffetta più velocemente possibile così da non far effettuare un alto numero di giri alla squadra rossa , b) cercare di Segnare per togliere un giro per ogni gol realizzato. Terminata la staffetta si cambia: squadra blu passa al Palloncino e squadra rossa effettua la staffetta. Al termine vince chi ha effettuato più giri. La competizione e l’ aspetto ludico fanno da contorno a questo esercizio che ha molteplici obiettivi: condizionamento aerobico, forza resistente, tecnica-propriocettiva e tecnica del tiro in porta. Ovviamente ogni variante applicata và a condizionare altri aspetti tecnici ed atletici.
Caro Papà era tanto che volevo parlarti ma solo ora riesco a farlo. Sai…in passato era diverso ma adesso nei tuoi occhi vedo solo il riflesso della maschera che mi hai fatto indossare. Iniziò per gioco e finì sul serio ed io sono cresciuto in fretta da bimbo a uomo senza altri passaggi. Iniziò per gioco come tutti i bambini amano fare. Quattro calci al pallone… magari nel campetto della chiesa ..attento a non dire parolacce ..altrimenti il prete ti espelle e ti fà dire le preghierine. E poi magari uno corre di meno perchè non ce la fà e allora gli dicono ” è meglio che ti metti in porta” : è così che cominciò da quel tiro parato d’ istinto ..quel rigore che contava solo per i miei amichetti…ma che cambiò la mia vita. “Ehi lo sai che in porta ci sai fare” …”perchè non vieni al torneo della mia squadra?Su dai!” All’ inizio ero un attore inconsapevole…col tempo, senza aver la possibilità di difendermi, diventai vittima cosciente. E tu Papà ….allora, eri un padre distratto e ti voltavi raramente per osservarmi. Solo quando quel tizio ti chiese se eri il padre del portierino….solo allora i tuoi occhi mi guardarono con l’orgoglio che dovrebbe essere tipico di ogni padre disinteressato ed io solo allora mi sentii veramente tuo figlio. Quella notte ne io ne te abbiamo dormito . Tu confuso dalle grandi aspirazioni per il mio futuro ed io asfissiato dalle tue improbabili aspettative. Il giorno dopo ero in professionismo, tra quelli delle figurine e mi sentivo appiccicato ad un album che non era il mio. Respiravo la nebbia di una fredda Piacenza ed il sole di Roma….lo dimenticai troppo in fretta. Tu mi vedevi già ad insidiare Buffon, io invece facevo fatica a togliere il posto a Paperino. Non perchè non fossi stato un campioncino..magari forse lo ero…ma giocavo senza divertimento e aspettavo che la partita finisse per tornare a respirare ….quell’ aria che tu mi avevi tolto. Delle volte le cose succedono senza che nessuno faccia nulla per farle accadere: tu Papà mi dicevi sempre che il mio destino dipendeva da me e forse avevi ragione. Io però non cambiai il mio destino ….e non diventai quel campione che tu avevi sognato..ma tornai ad essere semplicemente tuo figlio….magari un giorno mi avresti voluto bene lo stesso …..pur essendo ritornato nella terra dei normali. Ora faccio l’ allenatore e a quei ragazzi che guardano la tribuna in cerca di conferme…dico semplicemente”Nessuno ha il diritto di vivere la vostra vita e di privarvi del divertimento che è alla base di qualsiasi gioco. Pretendete di essere solamente considerati……figli dei semplici e normalissimi figli.”
“Impossible is nothing”. Proprio così: tutto è possibile, ma solo per chi crede in sé stesso e negli altri.
Infatti la nostra mente è strutturata in maniera tale da poter essere allenata a credere, pensare ed agire positivamente, ad avere fiducia. Quindi ci si può allenare a pensare ed agire in modo positivo riguardo a qualunque situazione: basta sapere cosa si vuole e fare tutti i passi necessari per attuarlo.
Inoltre durante il proprio cammino si possono trovare resistenze, sensi di colpa che impediscono il raggiungimento dei propri obiettivi, ma se analizzati e compresi, si può trasformarli a proprio vantaggio.
Se un calciatore o una squadra non sperano di finalizzare azioni e strategie positive, come le esercitazioni tecnico-tattiche provate in allenamento, e temono la vittoria degli altri, allora significa che la loro aspettativa è la sconfitta. Questo è un problema grosso perché quando la mente genera un dubbio, questo influirà sulla prestazione del singolo e, di conseguenza, di tutta la squadra.
Pensare in termini di sconfitta, o al massimo di pareggio, determina un processo mentale ed emotivo inibitorio, in molteplici ambiti come la muscolatura, la creatività, la fantasia, lo spirito d’iniziativa (l’atleta non proverà la giocata per paura di sbagliare) e questo comporta influenze sulla coordinazione del gesto motorio: quindi anche i gesti tecnici più elementari come uno stop oppure un passaggio a5 metridiventeranno errori.
Come migliorare allora? Bisogna credere il meglio, ovviamente secondo le proprie capacità collettive, ma con il gruppo unito: se la squadra è compatta, determinata, ha degli obiettivi ben chiari in mente e crede nel proprio allenatore e alla sua filosofia di intendere il calcio, allora la difficoltà si ridimensiona e la possibilità di evitare conflitti, dubbi aumenta.
Proprio per questo risulta fondamentale e cruciale il ruolo dell’allenatore.
Lui per primo deve pensare ed agire in positivo, per poterlo trasmettere ai suoi calciatori, senza contraddizioni. Perché questa ottica comporta l’abitudine della squadra a dare sempre, in allenamento e in gara, tutta sé stessa, da singolo a singolo.
E la passione è quel fattore che riesce a far esprimere un’atleta e una persona in questa direzione. Nello sport e nella vita.
Purtroppo però le persone veramente passionali sono poche. E quindi l’allenatore si può ritrovare calciatori che riservano una parte di sé stessi ogni settimana, ogni domenica, perché voglio esserci anche la partita dopo, oppure non danno il 100% per paura di sbagliare, di infortunarsi; ciò fa si che singolarmente non raggiungeranno mai i risultati ottimali e massimali secondo le loro capacità e potenzialità, e il collettivo ne risentirà dando mediocrità ai risultati.
I Chicago Bulls raccolti intorno al loro coach, Phil Jackson, che legge loro brani dal “Libro della giungla” per preparare la squadra alla partita.
Una frase che ricorre spesso, per motivare un gruppo di atleti : “La forza del lupo è il branco, e la forza del branco è il lupo”.
Sono uno dei tanti aneddoti usati per esaltare lo spirito di squadra
Ma allora il gioco di squadra è imprescindibile?
Se non è veritiera l’affermazione che senza la squadra non si fa nulla, e il mondo sportivo è pieno di esempi, è indubbio che anche se si ha il fuoriclasse o giocatore che sia, si farà sempre più fatica, il gioco di squadra è una necessità imprescindibile per raggiungere certi risultati, non a caso sta divenendo un concetto di cui si parla molto nello sport come nella vita imprenditoriale.
Le motivazioni, in un mondo sempre più orientato all’individualismo, che spinge a creare un gioco di squadra sono essenzialmente perché conviene a chi ne fa parte, anche se ragiona da egoista o da solista.
Per la stessa essenza del gioco di squadra: la tattica. La tecnica è solamente lo strumento. Un buon sistema tattico permette di mettere in evidenza i miei pregi e nascondere i miei difetti, e, contemporaneamente, sottolineare i difetti dell’avversario e neutralizzare i suoi pregi.
La tattica è il valore aggiunto del giocare in una squadra perché anche se un giocatore è bravissimo c’è sempre qualcosa in cui è meno abile e tramite il gioco collettivo si riesce a far emergere il meglio di ognuno, sopperendo ai suoi difetti con le doti di un altro.
Un gioco di squadra che non faccia questo applica una metodologia sbagliata.
Mantenere un giocatore all’interno della squadra non servono discorsi moralistici. Servono criteri più utilitaristici e pragmatici: deve intravedere la convenienza dello stare nel gioco di squadra, traendo i maggiori benefici personali giocando insieme a compagni che nascondano i suoi difetti ed esaltino invece i suoi pregi.
La costruzione di una squadra parte dall’avere chiaro l’obiettivo, avere un gioco ben delineato, conosciuto da tutti:.
La metodologia, lo stile di lavoro e di gioco, devono essere chiari a tutti, e non soltanto al Mister. Concepire il gioco di squadra come: “io penso, loro eseguono” è sbagliato. Le vere squadre non sono così. Il ruolo dell’allenatore consiste nel saper costruire un gioco plasmando la squadra in base alle caratteristiche intrinseche di ciascun giocatore, in collaborazione con i giocatori”.
Il ruolo dell’allenatore, un buon allenatore è chi riesce a far muovere un giocatore secondo le proprie intenzioni, ma il massimo risultato sarà quando i giocatori sapranno muoversi per conto loro in base a quanto hanno recepito negli allenamenti tecnico-tattici.
L’ideale assoluto, che come tale non è mai raggiungibile, viene nel momento in cui l’allenatore non ha più bisogno di correggere sul campo i movimenti dei prorpi giocatori perché i giocatori sanno già tutto quello che c’è da sapere. Tutti devono conoscere, oltre alla tecnica, come si gioca, la tattica, insomma.
La figura dell’allenatore è quindi assimilabile a quella di un capo, un ruolo di comando. Deve essere in grado di assumersi sulle proprie spalle i rischi. La tattica deve essere condivisa da tutti, anche tramite un contraddittorio. Se non c’è accordo entra in gioco il mister: e decide lui, perché non si può vivere nel conflitto. Il mister e il responsabile si assumono le responsabilità, cercando di sbagliare il meno possibile. Un margine di errore esisterà ovviamente sempre, l’essenziale è che tutto questo sia ben chiaro .
Squadra e gruppo, non sono la stessa cosa e non vanno confusi. Il gruppo è l’elemento alla base della squadra. Il gruppo si forma svolgendo un’attività in comune. Nel gruppo ogni giocatore ha dei ruoli, ma non ben delineati e assoluti, il gruppo è un’entità propria, la sua caratteristica non deriva dalla somma delle caratteristiche degli individui che compongono il gruppo, ma bisogna ricercarla nelle dinamiche che si creano al suo interno. E’ necessario verificare le caratteristiche di ciascun atleta, i talenti, oppure se ha un certo carattere, o se è coerente ad un certo metodo di lavoro.
Caratterizza una squadra rispetto ad un gruppo i ruoli, che sono più definiti in funzione del tipo di gioco che si vuole fare, della tattica che si intende applicare. E’ inammissibile, ad esempio, che un giocatore che non rispetti le disposizioni del mister anche quando sono in contrasto con le proprie convinzioni. Questo implica accettare le disposizioni del mister, accettare anche i limiti, i difetti, gli errori dei compagni. Ciascun giocatore deve avere e rispettare il ruolo assegnatogli dall’allenatore.
L’allenatore fa parte dei ruoli prestabiliti, il suo è quello di guidare la squadra. E’ necessario differenziare tra capo e leader, nello sport, ci sono allenatori che non sono leader e che utilizzano quelli che si vengono a creare in modo naturale all’interno del gruppo dei giocatori.
Quando c’è qualcosa che non funziona è difficile rispettare i ruoli, dipende dal clima creato, sul modo di interpretare un errore o una situazione.
E’ in caso di difficoltà che si vede se c’è davvero lo spirito di squadra. Quando le cose vanno bene, di solito, è semplice rispettare i ruoli, quando invece vanno male si innesca il meccanismo dei malumori. Il problema di fondo è che l’errore viene visto come una dimostrazione d’incapacità e non come degli strumenti d’apprendimento. oltre a distruggere l’armonia, impedisce di progredire, di imparare. E’ una situazione che nella mia esperienza ho trovato ovunque, l’errore segnala la necessità di apportare modifiche, i malumori, invece, impediscono di mettere in moto le risorse e le soluzioni necessarie per ottenere il miglior risultato possibile, risorse che, a volte, non si sa neppure di avere.
Quanto contano le motivazioni? Affinché i ruoli, il gruppo, la squadra funzionino è chiaro che la motivazione è un elemento fondamentale, motivazioni che devono essere concrete, come il raggiungimento di obbiettivi, risultati, comportamentali o morali. In che cosa consiste la motivazione di base, in fare ciò che piace. Di conseguenza, quando si costruiscono le squadre, bisogna che gli atleti siano persone a cui piace mettersi in gioco, progredire, stimolati a migliorarsi, ha trovare motivazioni.
In ogni modo è possibile migliorare le condizioni tattiche, il bagaglio tecnico, l’ambiente, concedere gratificazioni, al fine di rendere più soddisfatti di ciò che si svolge.
Un buon allenatore deve cercare di mettere, se può, un giocatore nel posto in cui sa che può dare il meglio di se stesso, se poi coincide nel ruolo dove gli piace stare diventa una motivazione .
La sfida… questa motivazione assume un ruolo fondamentale, un atleta, ha bisogno delle emozioni, di sentirsi parte di qualcosa, di un progetto che si costruisce durante gli allenamenti e dove il confronto con la squadra avversaria diventa solo il culmine, la punta di un iceberg di tutto un lavoro, questo va al di là della routine degli allenamenti o della preparazione, per arrivare a competere.
Come si fa ad avere la mentalità vincente?
La risposta è semplice e paradossale: vincendo! Il problema è: come faccio a vincere?
La prima vittoria è quella contro i propri limiti e i difetti. La funzione dell’allenatore è fondamentale: deve porre obiettivi facilmente raggiungibili, in maniera da far fare un passo alla volta e, soprattutto, deve dare aiutare a risolvere i difetti, superare le difficoltà, è con un allenamento serio costante e attento che si arriva a questa prima vittoria. Le difficoltà non devono più essere viste come un qualcosa che mi impedisce di fare, ma come la possibilità di allenarmi a superarle.
La seconda vittoria è quella contro gli avversari, che va programmata, da una parte affrontando avversari che siano alla mia portata, dall’altra, contemporaneamente, confrontandomi contro i migliori, anche se perdo, ma tutto questo nello spirito di squadra e di gruppo, rispettando il ruolo del Mister e le sue scelte. Si impara di più durante gli allenamenti che durante gli incontri, dove lo stress del risultato e della prestazione può condizionare la prestazione di qualsiasi atleta, si impara di più confrontandosi, allenandosi con un compagno o avversario forte piuttosto che con uno debole.
Quando la stagione sportiva entra nel vivo, il campionato è iniziato è tempo di elaborare qualche bilancio per i giocatori, allenatori e dirigenti.
Da quello che l’esperienza insegna sui risultati delle maggiori squadre professionistiche, si possono fare considerazioni su come trasformare le potenzialità di un gruppo di giocatori, alcuni dotati di indubbie qualità individuali, in forza di squadra, che possa portare a risultati concreti nel corso della stagione.
Queste considerazioni sono quanto mai pertinenti negli sport di squadra anche se riguarda anche quegli sport considerati individuali, se è vero che comunque anche i singoli atleti nella maggior parte dei casi fanno parte di squadre, gruppi o società sportive.
Quando si parla di spirito di squadra, la maggior parte degli atleti che praticano sport di squadra, spesso cadono nell’errore di focalizzarsi sul risultato personale piuttosto che su quello della squadra.
Gli allenatori e le società tramite i dirigenti responsabili, devono trasmettere ai propri atleti il concetto che il loro risultato personale sarà molto più elevato se contribuiranno prima al raggiungimento di obiettivi comuni.
Fermo restando che l’interesse primario, per un atleta e per la squadra, deve essere sia la performance individuale sia risultato, (anche se per qualche atleta è difficile capire questo concetto) tale performance può essere fornita solo grazie all’impegno di tutto il gruppo di atleti, sia in allenamento che in gara.
Potrei consigliare al riguardo un paio film che sono imperdibili per chiunque, in qualsiasi situazione, che esplicano questo messagio nello sport :
– Momenti di Gloria, film culto per qualunque sportivo che voglia avere successo in tutto ciò che si impegna a fare;
-Il Sapore della Vittoria, pellicola ricca di spunti e di temi sullo spirito di gruppo;
Il messaggio che trasmettono e gli spunti sono in particolare :
– l’integrazione di di atleti provenienti da luoghi ed esperienze diverse;
– la valorizzazione delle qualità individuali nell’ambito della crescita globale della squadra e del gruppo;
– il rispetto per il proprio e l’altrui impegno rimanendo concentrati e dando il massimo in ogni momento per il risultato dell’intera squadra;
– la motivazione a non mollare mai, neppure nei momenti più difficili, per gli altri e per approfondimenti ti rimando al prossimo seminario;
Il ragazzo che sceglie di impegnarsi in uno Sport merita rispetto e stima da parte dei genitori, che devono cercare di spronarlo ed incoraggiarlo nello svolgimento di tale attività, ma soprattutto capire, e fargli comprendere , che lo Sport è prima di ogni cosa, divertimento e voglia di stare insieme, senza nutrire gelosie inutili o false ambizioni, che, il più delle volte, sono di ostacolo e non di aiuto al giovane.
In effetti, particolarmente nel calcio e nella fascia d’età compresa tra i 6 ed i 14 anni, il genitore si trova di frequente protagonista di situazioni spiacevoli, che creano problemi ed ostacoli ad una serena e positiva attività sportiva per il proprio figlio. Molto spesso, un occhio attento scopre che il vero protagonista delle partite giovanili, colui che è più carico di tensioni, che si è preparato meticolosamente e che poi si dispera se si sbaglia un tiro in porta, è proprio il genitore.
Il ragazzino, invece, scuote le spalle, cancella quasi subito l’errore o la sconfitta e, in definitiva, l’unica cosa di cui veramente si rammarica è l’idea della predica che Io aspetta a casa. Può capitare che inconsciamente si tenda a realizzarsi attraverso il bambino e a proiettare su di lui i desideri che non si è riusciti a soddisfare da giovani. Con la convinzione che “ lo si fa per il suo bene’’, in realtà si può correre il rischio di diventare veri e propri deterrenti psicologici, non solo condizionando negativamente il rendimento in gara, ma, fatto ancora più grave, danneggiando lo sviluppo psicologico del ragazzo.
Molto spesso si vorrebbe che il proprio figlio non dovesse mai soffrire, ne commettere errori, ma ricevere dalla vita solo gioia e felicità: questo, purtroppo, non è possibile ed il compito del genitore diviene, perciò, quello di non intromettersi nelle scelte del figlio e di non voler vivere la vita al suo posto, capendo che ogni errore commesso ed ogni dolore provato aiuta il ragazzo a crescere ed a formare una sicura personalità.
Penso che l’attività sportiva sia uno del mezzi migliori per aiutare il proprio figlio a maturare e a crescere, in quanto lo Sport spinge il giovane ad impegnarsi, a cercare di migliorarsi, a mettersi continuamente alla prova, a stringere rapporti sociali, a comprendere il sacrificio e l’umiltà, ad assumersi delle responsabilità ed a divenire membro di una collettività nella quale vigono, per ciascuno, Diritti e Doveri.
Di seguito vengono proposti alcuni suggerimenti per i genitori, frutto di esperienze e che servono ad indicare un modello di comportamento positivo nei riguardi dei propri figli, modello che, ovviamente non ha nessuna pretesa di essere un Dogma, ma solo una traccia di riflessione.
Stimolare, incoraggiare la pratica sportiva, lasciando che la scelta dell’attività sia fatta dal bambino.
Instaurare un giusto rapporto con l’allenatore per fare in modo che al bambino arrivino sempre segnale coerenti dagli adulti di riferimento.
Lasciare il bambino libero di esprimersi in allenamento ed in gara (è anche un modo di educarlo all’autonomia).
Evitare di esprimere giudizi sui suoi compagni o di fare paragoni con essi: è una delle situazioni più antipatiche che si possano verificare sia per i piccoli che per i grandi.
Evitare rimproveri a fine gara. Dimostrarsi invece interessati a come vive i vari momenti della gara ed eventualmente evidenziare i miglioramenti. Aiutarlo a porsi obiettivi realistici ed aspettative adeguate alle proprie possibilità.
Offrire molte opportunità per un’educazione sportiva globale. Rispetto delle regole, degli impegni, delle priorità, dei propri indumenti, degli orari, dei compagni, dell’igiene personale. Il genitore deve concorrere al raggiungimento di questi obbiettivicon l’allenatore.
Far sentire la nostra presenza nei momenti di difficoltà; sdrammatizzare, incoraggiare,evidenziare gli aspetti positivi. In ogni caso salvaguardare il benessere psicologico del bambino.
Avere un atteggiamento positivo ed equilibrato in rapporto ai risultato, saper perdere è molto più difficile ed importante che saper vincere. Nello sport, come nella vita, non ci sono solo vittorie e dopo una caduta bisogna sapersi rialzare.
Tener conto che l’attività viene svolta da un bambino e non da un adulto.
Cercare di non decidere troppo per lui.
Cercare di non interferire con l’allenatore nelle scelte tecniche evitando anche di dare giudizi in pubblico sullo stesso ( in caso di atteggiamenti ritenuti gravi rivolgersi in Società ).
Cercare di non rimarcare troppo al bambino una partita mal giocata o quant’altro evitando di generare in lui ansia da prestazione ( non bisogna essere né ipercritici né troppo accondiscendenti alle sue richieste che spesso sono solo dei capricci ).
Incitare sempre il bambino a migliorarsi facendogli capire che l’impegno agli allenamenti in futuro premierà (rendendolo gradatamente consapevole che così come a scuola anche a calcio per far bene c’è bisogno di un impegno serio).
Abituare il bambino a farsi la doccia, legarsi le scarpe da solo e a portare lui stesso la borsa al campo sia all’arrivo che all’uscita (rendendolo pian piano autosufficiente).
Cercare di non entrare nel recinto di gioco e nello spogliatoio.
Durante le partite cercare di controllarsi: un tifo eccessivo è diseducativo sia per i bambini che per l’immagine della società nei confronti dell’esterno.
Cercare di ascoltare il bambino e vedere se quando torna a casa dopo un allenamento od una partita è felice.
Ricordarsi che sia i compagni che gli avversari del proprio bambino sono anche loro bambini e che pertanto vanno rispettati quanto lui e mai offesi.
Rispettare l’arbitro e non offenderlo.
Nelle partite del Settore Giovanile spesso gli arbitri sono ragazzi giovani al primo approccio o sono dei dirigenti e anche loro genitori che stanno aiutando il calcio giovanile: tutti si può sbagliare, cerchiamo di non perdere la pazienza!
Ricordarsi che molte volte si pensa che ” l’erba del vicino sia sempre la migliore” e pertanto prima di criticare l’operato della Società cercare di capire chiedendo direttamente spiegazioni al Responsabile che sarà felice di ascoltarti.
Stare con i coetanei è anche un modo per impossessarsi dei comportamenti degli adulti, per abituarsi al controllo della realtà imparando a responsabilizzarsi e ad accettare quelle regole morali e di comportamento che sono la base di una corretta socializzazione.
Il gioco è, quindi, un’attività motoria importante e che serve ad assolvere molte funzioni: – esplorazione: il bambino osserva il suo ambiente e ne fa conoscenza; – acquisizione di abilità fisiche specifiche: tramite i giochi di movimento e di precisione; fortificazione dell’organismo: anche in questo caso tramite i vari giochi fisico-motori; – aumento del senso di sicurezza e di autostima : attività ludico-motoria, giochi di precisione e giochi sociali; – socializzazione: giochi di gruppo; – acquisizione di abilità logiche: giochi di costruzione, di fantasia e di regole.
L’attività sportiva, permette: – di esprimere in forma sportiva l’agonismo necessario per affermare se stesso in un ambiente competitivo, e quindi non propriamente favorevole – il confronto con degli avversari, sperimentando la possibilità di confrontarsi e quindi di rivaleggiare per fare un buon risultato, nel rispetto delle regole, senza che ne consegua una distruzione dell’altro e quindi la violenza; – di accettare la sconfitta, insegnando a gestire la rabbia derivante dalla frustrazione e a non lasciarsene sopraffare; la sconfitta non esiste senza vittoria, è l’altra faccia della medaglia, vista in questa prospettiva essa diventerà uno stimolo per progredire, nello sport e nella vita, con conseguente rafforzamento dell’autostima; – di sviluppare l’autodisciplina, gli esercizi, gli allenamenti, gli sforzi per apprendere e migliorare il gesto tecnico, infatti, non sono fini a se stessi, ma in funzione di un obiettivo: la riuscita in gara, sul campo di gioco e lo svolgimento di un compito scolastico o di un’attività lavorativa, nella vita quotidiana.
La partecipazione simultanea delle molteplici esperienze motorie e sensoriali, ma anche cognitive ed emozionali, consente all’individuo la possibilità di scoprire o ritrovare valori, motivazioni, scopi e mete. Nel gioco il bambino imita l’adulto, ma evitando al tempo stesso le responsabilità dell’adulto: quando il bambino gioca i confini tra fantasia e realtà sono aboliti, crea situazioni immaginarie che affronta e padroneggia, riuscendo in tal modo a sopportare ed a superare l’ansia delle situazioni reali.
Compito dell’istruttore, in questo caso, sarà quello di abituare l’allievo a vivere in modo tranquillo e non traumatico questo nuovo salto di qualità, rendendo l’agonismo un qualcosa di interessante, ricordando sempre che si tratta comunque di un gioco, anche se diverso, che potrà portare il ragazzo a vivere lo sport in maniera positiva, ricercando in questa attività una via per la propria realizzazione.
Le scuole calcio hanno oggi più che mai la necessità di essere guidate da istruttori che credono nei veri valori della vita e non più solo dal punto di vista tecnico-tattico, ma soprattutto sotto il profilo umano, psicopedagogico.
Prima di formare calciatori, devono formare uomini, e per farlo gli istruttori ed i genitori devono imparare a cambiare il loro punto di vista di adulti, e ragionare con gli occhi ed i bisogni dei bambini. Il bambino compete e vuole vincere per natura, tanto che senza questi stimoli non vi sarebbe l’adulto, ma è il modo in cui l’adulto interpreta la competizione, e quindi la vittoria e la sconfitta, che gli è estraneo.
Il bambino gioca una partita per volta e, sia che la vinca o sia che la perda, la termina con il fischio di chiusura, all’ultimo set o al traguardo per cominciarne un’altra da zero, senza perdere la misura dei propri limiti se vince..questo scritto è stato trovato in una bacheca di una società, secondo me valeva la pena leggerlo, comprenderlo, un modo molto simpatico e originale di educare e spiegare in modo indiretto alcune problematiche ai genitori
“Caro papà, lo sai che quasi mi mettevo a piangere dalla rabbia quando ti sei arrampicato sulla rete di recinzione urlando contro l’arbitro? Io non ti avevo mai visto cosi arrabbiato! Forse sarà anche vero che lui ha sbagliato, ma quante volte io ho fatto degli errori senza che tu mi dicessi niente..? Anche se ho perso la partita per colpa dell’arbitro, come dici tu, mi sono divertito lo stesso.
Ho ancora molte gare da giocare e sono sicuro che, se non griderai più, l’arbitro sbaglierà di meno… Papà capisci, io voglio solo giocare; ti prego, lasciamela questa gioia, non darmi suggerimenti che mi fanno solo innervosire: TIRA, PASSA, BUTTALO GIU’… Mi hai sempre insegnato a rispettare tutti, anche l’arbitro e gli avversari, e a essere educato. E se buttassero giù me? Quante parolacce diresti? Un’altra cosa papà:quando il Mister mi sostituisce o non mi fa giocare, non arrabbiarti. Io mi diverto anche a vedere i miei amici, stando seduto in panchina. Siamo in tanti ed è giusto far giocare tutti, come dice il mio Mister.
E, per piacere, insegnami a pulire le mie scarpe da calcio. Non è bello che tu lo faccia al posto mio, ti pare? Scusami papà, ma non dire a mamma, al ritorno dalla partita: oggi ha vinto o oggi ha perso; dille solo che mi sono divertito tanto e basta. E poi non raccontare, ti prego, che ho vinto perché ho fatto un goal bellissimo: non è vero papà! Ho buttato il pallone dentro la porta perché il mio amico mi ha fatto un bel passaggio; il mio portiere ha parato tutto, perché, insieme ai miei amici, ci siamo impegnati moltissimo: per questo abbiamo vinto ( l’ ha detto anche il Mister )!
E ascolta papà: al termine della partita non venire nello spogliatoio per vedere se faccio bene la doccia o se so vestirmi. Che importanza ha se mi metto la maglietta storta? Papà, devo imparare da solo! Sta sicuro che diventerò grande anche se avrò la maglietta rovesciata, ti sembra? E lascia portare a me il borsone. Vedi? C’è stampato sopra il nome della mia Squadra e mi fa piacere far vedere a tutti che gioco a pallone. Non prendertela papà, se ti ho detto queste cose, lo sai che ti voglio bene…ma adesso è tardi: devo correre al campo per l’allenamento. Se arrivo all’ultimo, il mio Mister non mi farà giocare, la prossima volta. Ciao “
Quante volte, assistendo alla seconda frazione di gioco, abbiamo sentito, sulle tribune di uno stadio, frasi del tipo «chissà cosa avrà detto ai giocatori» «dagli spogliatoi è uscita un’altra squadra», come se con il cambio di maglietta, durante l’intervallo, si fossero modificate anche le caratteristiche dei giocatori.
Quante volte la pausa tra primo e secondo tempo ha mutato totalmente l’atteggiamento di una compagine, cambiando poi il volto e il risultato della partita?!
Quindici minuti, anche meno se si considera il tempo necessario a raggiungere lo spogliatoio e il successivo rientro sul terreno di gioco. Un lasso di tempo durante ìl quale sì devono affrontare tutta una serie di situazioni: dal ripristino della calma dopo che tutti hanno provveduto ad andare in bagno, a procurarsi del thè o dei sali da bere, a sottoporsi ad eventuali controlli sanitari; all’analisi delle diverse situazioni di gioco: possesso di palla in relazione al comportamento difensivo degli avversari – situazioni di gioco non in possesso di palla – decisioni sull’utilizzo di eventuali palle inattive, sia a favore che contro – valutazione di eventuali situazioni a rischio disciplinare.
Riuscire ad ottimizzare il tempo a disposizione per affrontare al meglio quanto visto (ed eventuali altre problematiche che ogni partita può far emergere), sarà quindi ulteriore sinonimo di professionalità.
Ma a cosa deve fare attenzione l’allenatore e come si deve comportare ?
Si ritiene che il rischio maggiore in questi momenti sia un possibile calo di tensione.
Il Mister per mantenere alta la concentrazione del gruppo, avrà il compito di allontanare prima possibile ogni elemento di «disturbo» (accompagnatori, dirigenti, ecc.); creare le condizioni ottimali per comunicare con ogni elemento della squadra (evitare per esempio di avere persone alle spalle, o di non vedere in faccia tutti i giocatori); non mostrarsi incerti ed impreparati, ma utilizzare parole chiare e decise preventivamente meditate; ricercare maggiormente un aiuto psicologico piuttosto che tecnico, suggerendo possibili soluzioni a ogni errore evidenziato; utilizzare termini di sostegno e di incitamento qualunque sia il risultato della prima frazione di gioco.
Naturalmente poi, ogni allenatore conoscerà in maniera dettagliata ognuno dei suoi ragazzi e solo lui potrà decidere quale strategia adottare con il singolo per farlo rendere al meglio, anche nella seconda parte della gara: comunicazioni faccia a faccia, incoraggiamenti personali o davanti al gruppo, palo- le più o meno decise nei suoi confronti.
I compiti dell’allenatore-educatore saranno quindi indirizzati principalmente all’analisi di queste situazioni e le correzioni tecnico-tattiche dovranno essere apportate attraverso un’enfatizzazione dei momenti positivi, ricordando che i ragazzi vogliono solo giocare il più possibile.
A livello giovanile, la situazione deve essere analizzata da un altro punto di vista. I ragazzi, che quando si ritrovano all’oratorio o ai giardinetti, sono abituati a giocare ininterrottamente per ore ed ore, vengono quasi disturbati dal fischio dell’arbitro, in quanto il più delle volte non sentono la necessità di riposare. L’intervallo per loro dovrà essere a tutti gli effetti un momento didattico, da cui attingere nozioni importanti, come durante un qualsiasi allenamento infrasettimanale. Non dovranno quindi mancare i suggerimenti tecnico-lattici in quanto sarà importante per la loro crescita nel mondo calcistico far tesoro fin da giovani di quei minuti di pausa.
Se poi ci rivolgiamo alle categorie Pulcini ed Esordienti, dove il regolamento prevede le sostituzioni obbligatorie, assistiamo (anche perché normalmente non si rientra negli spogliatoi tra la prima e la seconda frazione di gioco), alla frenesia del ragazzino che sente avvicinarsi il suo momento, dopo un tempo passato in panchina, e al silenzio degli altri compagni che attendono quasi mestamente di essere chiamati e quindi sostituiti.
SOGGETTO
COMPORTAMENTO DEL TECNICO
Demotivazione
Minaccia di esclusione
Sfiducia in se stesso
Ricordare esperienze vincenti
Troppa Aggressività
Enfatizzare il rischio espulsione
Insicuro
Rassicurare, incoraggiare
GRUPPO
COMPORTAMENTO DEL TECNICO
Euforico
Enfatizzare valore avversari
Depresso
Sottolineare le cose ben fatte
I compiti dell’allenatore-educatore saranno quindi indirizzati principalmente all’analisi di queste situazioni e le correzioni tecnico-tattiche dovranno essere apportate attraverso un’enfatizzazione dei momenti positivi, ricordando che i ragazzi vogliono solo giocare il più possibile.
L’allenamento del giovane Portiere della Scuola Calcio assume una centralità rilevante nel contesto generale dell’ intera stagione e deve possedere come caratteristica predominante la possibilità di fare emergere le qualità nei vari aspetti del piccolo allievo.
Oltre alle conoscenze tecniche specifiche, occorrono da parte dell’ Allenatore capacità creative, affettive, relazionali e di ascolto. Il raggiungimento dell’ obiettivo sportivo non può essere inteso come un esito meccanico, a se stante, distaccato dalla realtà umana che forma la squadra e dalle sue innumerevoli implicazioni in termini di coinvolgimento e motivazione.
L’individuo mostra le sue modalità di approccio alla realtà secondo la propria storia e le proprie caratteristiche psicologiche che vincolano l’agire ed il mondo esperienzale con i relativi vissuti di ognuno di noi.
Le tensioni, gli ostacoli alla motivazione, la percezione di sè, la propria autostima, sono alcune delle problematiche che possono intervenire sia al momento della seduta di allenamento sia al momento della gara, interferendo sui comportamenti e che possono essere gestite al meglio grazie ad una adeguata preparazione psicologica.
Questa consiste in una metodologia attenta agli aspetti relazionali di contesto e si concentra sul rapporto tra i comunicanti, tra l’ Allenatore e l’ Allievo: si basa, quindi, prima di tutto sulla persona e poi sull’ atleta.
E’ fondamentale che si arrivi ad accettare fino in fondo l’idea che il nostro giovane Portiere, per rendere al massimo, non deve essere ben preparato solo nei vari aspetti fisici, tecnici e tattici, ma anche la sua mente deve essere in grado di dare il massimo ed il meglio al momento della prestazione.
Numerose sono le variabili che intervengono nella prestazione del Portiere che vanno dall’ età ( esperienza ) alla struttura fisica ( atleticità, altezza, ecc ) all’ ambiente ( pressioni più o meno sostenibili presenti nel contesto sportivo od extra sportivo, tipologia delle relazioni, ecc ) alle caratteristiche emotive personali ( capacità gestione dello stress, personalità, ecc ).
Chi si trova ad operare nel ruolo di Istruttore/Allenatore nella Scuola Calcio deve tenere presente e considerare l’importanza del contesto, con le sue aspettative e con le sue pressioni con cui il giovane allievo si trova a vivere ed a fare i conti.
Per evitare il rischio di sottovalutare l’influenza che rivestono i fattori storici e psicologici personali, non solo nel riuscire ad emergere, ma anche nel saper mantenere un adeguato livello di preparazione e prestazione, ogni Allenatore di Portieri deve tener presente:
il tipo di relazione che viene a stabilirsi tra Allenatore e giovane Portiere: essa permetterà o meno l’acquisizione degli apprendimenti e lo sviluppo delle capacità;
il tipo di scambio e dialogo tra Allenatore e giovane Portiere: regole chiare, riconoscimento delle aspettative maturate, contribuiscono ed intervengono significativamente sulla prestazione del giovane numero uno.
In sostanza non c’è apprendimento, e quindi sviluppo delle potenzialità ed applicazione delle capacità, se nella relazione esiste un conflitto non risolto, determinato da scarsa qualità relazionale.
Una corretta gestione dal punto di vista psicologico del giovane Portiere deve tener conto anche delle regole diverse tra i contesti di provenienza ( ad es. famiglia, realtà sociale, ecc ), delle aspettative ( verso di lui ) diverse tra i contesti di provenienza ( ad es. famiglia che lo accetta per come è dal punto di vista affettivo; società sportiva che lo accetta per quanto fà dal punto di vista della prestazione ) e del ciclo vitale, cioè del momento specifico della sua crescita ed evoluzione.
Ciò che voglio far intendere è che l’allenamento di un bambino che vuole provare a fare il Portiere non può prescindere da alcune attenzioni che nella cornice di gioco, tengano conto delle diverse variabili che partecipano alla sua motivazione ed al piacere di andare al campo, incontrare gli amici, sentirsi riconosciuto dal proprio Istruttore, dimostrare a se stesso di essere in ” grado di ” ed ai propri genitori che è bravo.
Ovviamente il ” bravo ” non deve essere inteso come da pagella, ma come una percezione personale di essere riuscito in un particolare compito o meglio ancora in un determinato intervento.
Il Preparatore dei Portieri dovrà, quindi, strutturare il proprio lavoro tenendo conto anche delle risposte emotive individuali, facilitando così l’ottenimento dei risultati attesi dal punto di vista della prestazione.
Il giovane Numero Uno, come ogni giovane atleta, ha bisogno di trovare, per l’espressione massima dei propri potenziali, le condizioni di benessere psicologico che qui va inteso come esito di modalità relazionali in cui sono estremamente chiari i ruoli, le aspettative, i modelli comunicativi al cui interno ogni individuo è impegnato.
Schematizzando l’ Allenatore dei Portieri, così come per ogni tecnico di campo, deve possedere, oltre alle competenze specifiche del ruolo, ed in questo può essere un vantaggio l’aver difeso la porta in passato, anche una sensibilità ed una attenzione agli aspetti psicologici e per cui svilupperà una strategia di lavoro che terrà in forte considerazione i seguenti aspetti:
a) psicologia dell’ individuo: analisi, valutazione ed intervento nelle seguenti aree:
attenzione
motivazione
autostima
percezione del rapporto con i compagni
b) psicologia del giovane allievo nel gruppo: osservazione ed intervento sulla:
gestione del rapporto tra il tecnico ed i giovani portieri
riconoscimento e gestione degli aspetti complementari ( riguardanti il tema delle gerarchie allenatore-atleta ) e degli aspetti simmetrici ( riguardanti il tema della prestazione/capacità di misurarsi per migliorare )
L’ Istruttore si troverà a dover fare i conti con altri e non secondari aspetti del proprio ruolo: i modelli proposti ( professionistici o dilettantistici ) e le aspettative dei genitori.
Sappiamo come oggi nella società dell’ immagine rivesta grande rilevanza apparire: poter imitare ed identificarsi con modelli importanti in una certa misura diviene altamente compensativo dei propri reali o supposti limiti.
Bisogna tenere presente di come il giovane Portiere si trovi al centro di complesse pressioni, sia interne legate alla sua crescita che lo trasforma anche fisicamente, sia esterne che lo vedono sempre più alle prese di aspettative ambientali comportamentali, progressivamente più articolate e raffinate come a scuola, nelle attività sportive, nella vita.
Anche qui gioca un ruolo fondamentale l’età del giovane ed il ruolo dell’ adulto. Manifestare ad esempio il sogno di diventare un campione, è senza dubbio legittimo ed al giovane può servire finchè rimane nell’ ambito della sua immaginazione, nel gioco dei desideri.
Altro diviene se direttamente od indirettamente entrano in gioco le aspettative degli adulti: il genitore che vede nel suo piccolo il Portiere di Serie A del futuro a cui può aggiungersi l’ Allenatore che un giorno potrà dire ” quello lì l’ho allenato io ! ” rischiano di provocare un atteggiamento nel giovane atleta di rifiuto o di frustrazione se non riesce a soddisfare le aspettative dei grandi.
L’ Allenatore che si trova impegnato a lavorare con giovani Portieri della Scuola Calcio deve tenere conto di queste molteplici variabili per potere realizzare un valido ed efficace percorso di crescita, che sia esito di una miscela corretta di competenze tecniche, psicologiche e relazionali.
Uno dei pregi di Internet è quello di dare la possibilità a tutti di entrare in comunicazione con universi a noi lontani. Recentemente in una delle mie lunghe “navigazioni” notturne mi sono collegato con il sito dell’ NSCAA (Associazione Nazionale Americana Allenatori di calcio) www.NSCAA.com.
Sfogliando questo sito, peraltro particolarmente completo, sono rimasto colpito da una pagina in particolare: il codice di etica degli allenatori: una serie di norme comportamentali tanto ovvie quanto poco osservate nel nostro ambiente.
Premetto che molte di queste norme non sono applicabili da noi per una differenza di cultura che renderebbe le norme stesse anacronistiche: ad esempio in America è considerato eticamente scorretto andare a visionare delle squadre avversarie se non durante lo svolgimento di gare ufficiali. Per quanto paese ancora in via di sviluppo tecnico-tattico , credo che a livello di cultura sportiva, gli americani abbiano ancora molto da insegnarci. Mi permetto di proporvi uno stralcio di questo codice, invitando tutti a prenderne una completa visione nella versione originale, anche se seguire alla lettera i comportamenti sotto elencati risulta essere cosa difficile se non impossibile; è altresì vero che un costante tentativo da parte della nostra categoria (allenatori e, perché no, giocatori) di applicare regole semplici e civili, renderebbe sicuramente il nostro ambiente più vivibile e farebbe del gioco del calcio ancora di più il gioco più bello del mondo.
PREMESSA
Il calcio è un gioco che appartiene in primo luogo a chi lo pratica: offre un arricchimento personale sotto l’aspetto fisico e psicologico ed esperienze che formeranno parte del bagaglio dell’individuo per tutta la vita. Gli allenatori dovrebbero trasmettere ai propri giocatori valori come rispetto, sportività, civiltà ed integrità che vanno al di là del singolo risultato sportivo e che sono il fondamento stesso dello sport. Chi intraprende l’attività di allenatore, sia professionalmente che a livello volontario dovrebbe essere portatore di questi valori e rappresentare un esempio per i propri atleti. Il comportamento degli allenatori dovrebbe sempre essere eticamente corretto nei confronti di tutte le componenti del mondo del calcio: atleti, colleghi, arbitri, dirigenti, genitori, tifosi e mezzi di informazione. Gli allenatori sono persi ad esempio dai giovani come modelli di comportamento e devono comprendere la pesante influenza che parole ed atteggiamenti hanno nei confronti degli atleti che compongono la loro squadra. Per questa ragione gli allenatori devono considerare come propria responsabilità la trasmissione dei suddetti valori morali.
Ecco i punti fondamentali che gli allenatori dovrebbero sempre tenere a mente.
1. L’importanza del risultato non dovrebbe mai mettere a repentaglio la salute o l’integrità fisica dei giocatori. La vittoria non è altro che il risultato della preparazione tecnica, tattica, fisica e psicologica della squadra. Questi valori non si devono mai sacrificare per aumentare il proprio prestigio personale. 2. Il gioco del calcio non deve mai impedire al giovane di ottenere buoni risultati sotto il profilo scolastico; insieme alla famiglia ed alla scuola l’allenatore dovrebbe avere un ruolo attivo nell’educazione dell’individuo. 3. L’allenatore deve sempre rispettare, difendere ed insegnare ai propri allievi le regole del gioco del calcio, non deve per nessuna ragione cercare di ottenere vantaggi attraverso l’insegnamento consapevole di comportamenti antisportivi. 4. La diagnosi ed il trattamento degli infortuni sono un problema medico, di conseguenza gli allenatori devono fare in modo che vengano trattati da personale qualificato. Affidare giocatori a personale non qualificato o peggio ancora formulare personalmente diagnosi o consigliare terapie è un comportamento da evitarsi. Allo stesso modo devono astenersi dal prescrivere medicinali che, peraltro possono essere prescritti solo da personale medico. 5. Gli allenatori sono responsabili del comportamento dei propri giocatori ed hanno il dovere di stigmatizzare tutti gli atteggiamenti antisportivi; per questa ragione il fair-play andrebbe sempre incoraggiato sia nelle sedute di allenamento che durante le gare. 6. Gli allenatori dovrebbero mettere gli arbitri nelle condizioni di svolgere la propria opera il più serenamente possibile attraverso un atteggiamento rispettoso e corretto evitando inoltre di incentivare comportamenti negativi dei propri giocatori nei confronti del direttore di gara. 7. Gli allenatori devono evitare atteggiamenti dissenzienti nei confronti ed aggressivi nei confronti della panchina avversaria. 8. Gli allenatori hanno il dovere di dare sempre il massimo ai propri giocatori, hanno perciò il dovere mantenersi aggiornati attraverso testi, corsi e tutto ciò che il mercato propone. E’ necessario amplare continuamente le proprie nozioni tecnico-tattiche, fisiologiche, medico-sportive e psicologiche. 9. Un allenatore ha sempre qualcosa da imparare da un collega, per questa ragione visitare allenamenti e confrontarsi con un altro allenatore è da considerarsi fonte di aggiornamento.
Questo articolo non vuole insegnare niente a nessuno ma creare un dibattito che abbia come obiettivo il massimo impegno di noi allenatori verso i giovani calciatori, cercando di insegnare loro il maggior numero di nozioni tecniche per avere opportunità di crescita nell’ambito calcistico.
Molti pensano che non ci siano soluzioni ai problemi nei quali versa il calcio italiano, ed in particolare l’abbandono del settore giovanile, le società che pensano unicamente al risultato, i genitori che spesso non portano i loro figli alle scuole calcio con l’intento di farli divertire, stimolare nuove conoscenze etc…, ma pensano ad un probabile avvenire come calciatore.
Certo, tutto questo è vero nella stragrande maggioranza dei casi, ma riteniamo che ci sia una soluzione a tutto ciò e che noi allenatori siamo la componente essenziale per cambiare lo stato delle cose.
Siamo consapevoli delle difficoltà che troveremo sulla nostra strada e dei tempi che saranno inevitabilmente lunghi. Ci vuole quindi una “rivoluzione copernicana” nell’approccio, di noi allenatori, con le componenti del sistema calcio: società sportive, genitori, e soprattutto allievi cercando di creare un circolo virtuoso, una specie di catena di Sant ‘Antonio, che riesca a raggiungere un sempre crescente numero di allenatori, con obiettivo la crescita del giovane calciatore.
Negli ultimi anni si è verificato un continuo proliferare di libri, a volte interessanti, molte altre meno, tutti (nel caso non fosse così me ne scuso con gli autori) con la stessa finalità: far vedere nuove (?) esercitazioni. Ora ogni allenatore può in qualche modo aggiornarsi con uno di questi libri e, con buone probabilità di riuscita proporle ai propri allievi. Allora ci siamo chiesti : a livello didattico ci sono varie opzioni, altre sempre più moderne arriveranno, cosa possiamo fare di diverso e di integrativo per migliorare le cose? È possibile che tutto sia finalizzato al compito di proporre esercitazioni? Noi allenatori facciamo errori? Quest’ ultima è la domanda chiave. Ci siamo interrogati sui nostri metodi di insegnamento, ci siamo confrontati, abbiamo “spiato” altri allenatori, come si comportavano, come si esprimevano, e la risposta è stata sì, commettiamo molti errori, certamente in buona fede, ma che vanno a discapito dei ragazzi.
Con questo non voglio certo affermare che creino danni a livello fisico, anche se si è visto far correre bambini di 10 anni con dei pesi in mano per fare potenziamento, ma comunque rischiano di ritardarne l’apprendimento.
Le società e i genitori sono delle componenti che noi allenatori dobbiamo educare. Se le società hanno giustamente i loro interessi ( soprattutto economici ) da salvaguardare, dobbiamo far capire loro che un ragazzo che ha delle “basi tecniche” buone sarà più appetibile di un altro. Che non è assolutamente vero che non si possa “vincere” giocando bene. Che un settore giovanile dove si insegna calcio sarà seguito con maggiore attenzione dalle grandi società, avrà più facilità ad attirare i ragazzi, e di conseguenza vedrà i suoi interessi economici crescere.
Per quanto riguarda i genitori ci vuole più dialogo. Sarebbe meglio per tutti che i genitori portassero i loro figli al campo e poi se ne andassero, che non venissero a vedere le partite, che durante le partite non gridassero ai giocatori cosa fare, in poche parole che si fidassero della società ( allenatore, dirigenti, accompagnatori ) .
Sapendo che questo non potrà mai accadere per evidenti motivi, non ci resta che parlare con loro, spiegare la nostra filosofia, che se tutta la settimana chiediamo al ragazzo di non buttare via il pallone, di giocare e dalla tribuna si grida il contrario, roviniamo il lavoro dell’allenatore e mettiamo in difficoltà il ragazzo.
Personalmente ritengo che sia importante rinunciare al nostro ego, che utilizza l’allievo per ottenere una vittoria personale. E’ inammissibile sentire allenatori dire “ ho vinto “, quando la vittoria è stata ottenuta buttando il pallone. La nostra vittoria è quella di aver insegnato ai bambini a disimpegnarsi nel maggior numero di situazioni possibili,”giocando a calcio”.
A tutti piace vincere, ma c’è solo un modo che deve darci soddisfazione; vedere la tua squadra giocare meglio degli avversari. Lo sappiamo che il modo più facile per vincere è di allontanare il più possibile il “pericolo” dalla propria porta, che se sbagli il passaggio vicino all’area di rigore è facile subire un gol, ma se vogliamo insegnare il gioco del calcio (credo che la qualifica “allenatore di base” significhi questo) ci dobbiamo porre alcune domande: alla fine della stagione, ammesso che “ho vinto”, il giocatore è migliorato? ha appreso nuove nozioni? Ha capito quando deve tirare, passare, dribblare?……..oppure come molto spesso accade ne sa quanto prima.
La conseguenza del discorso fatto è quella di cambiare radicalmente le nostre idee, porci al servizio del ragazzo, dirgli bravo quando sbaglia perché solo dagli errori s’impara, e soprattutto cambiare la parola “buttala” con “giocala”.
Particolare da non dimenticare è quello che facendo “giocare la palla” si vengono a concatenare molte cose che il calciatore deve saper fare; il passaggio, lo stop, il cambio di gioco, il possesso palla, lo smarcamento. L’ allenatore ha la possibilità di applicare la tecnica analitica, che è assolutamente necessario fare, alla partita, in modo da creare il maggior numero di situazioni possibili, ed il ragazzo ha il compito di risolverle…
Questo articolo pubblicato da Educalcio, tratto dall’ “Eco di Bergamo” costituisce l’emblema di una situazione grottesca che si verifica in moltissimi contesti calcistici e non. I fatti raccontati di Milco possono costituire la storia di Gianni, Antonio e Mario; in quanti almeno una volta ci siamo trovati nella sua situazione?
«Io per i genitori sono e sarò sempre un allenatore incapace. Mi chiamo Milco, sono un allenatore di calcio di settore giovanile ormai da 14 anni, sempre nei quartieri di Bergamo, e attualmente sono il mister di una squadra allievi Figc. Vi racconto con ironia il perché del titolo di questa mia lettera di sfogo».
«I genitori non sono e non saranno mai contenti e la loro infelicità diventa un mio limite. Ho partecipato per tre anni a un campionato categoria giovanissimi Figc denominato “fair play”. Questo campionato aveva due regole principali. La prima era che la partita era suddivisa in tre tempi da venti minuti ciascuno e inoltre vigeva l’obbligo di far giocare per un tempo tutti i ragazzi che erano a disposizione in panchina».
«I sette cambi io li facevo sempre all’inizio del secondo tempo, in più ovviamente c’erano tutte le altre regole comuni del gioco del calcio. Avevo venti giocatori in rosa e di conseguenza c’erano quaranta genitori. Il regolamento mi consentiva di inserire in distinta solo diciotto giocatori (undici titolari e sette a disposizione), quindi purtroppo due ragazzi non potevo convocarli».
«Pronti via ed ecco che per i quattro genitori di quei due ragazzi non convocati io ero un allenatore incapace. Dai Milco, mi dicevo, non ti abbattere, ne hai ancora trentasei che ti stimano. Arrivava il giorno della partita e io mi dovevo attenere al regolamento, undici titolari e sette a disposizione».
«I ragazzi erano vestiti, uscivano dallo spogliatoio ed entravano in campo per il riscaldamento. I titolari all’interno del campo di gioco, gli altri da un’altra parte a palleggiare tra loro. Boooommmm! Ecco che anche per quei quattordici genitori resisi conto di avere i propri sette figli non titolari io ero diventato un allenatore incapace, nonostante avessi comunque convocato i loro figli».
«Non devo mollare, mi dicevo allora, ho ancora ventidue genitori che mi vogliono bene. L’arbitro era pronto a fischiare l’inizio della partita, i ragazzi titolari si disponevano in campo in base ai ruoli da me dati. Non era possibile, porca miseria che sfortuna, per otto genitori i loro quattro figli giocavano fuori ruolo. Mi veniva da morire, nonostante li avessi convocati, nonostante giocassero titolari, anche per loro otto io ero un allenatore incapace».
«Barcollavo ma non mollavo, avevo pur sempre ancora quattordici genitori che mi stimavano…. Ma no! Finito il primo tempo e nel rispetto del regolamento, facevo entrare tutti e sette i ragazzi che erano a disposizione. Ma io mi chiamo Milco ed ero, sono un allenatore incapace e sapete cosa combinavo con i cambi? Lasciavo in campo i quattro giocatori che “erano fuori ruolo” e sostituivo gli altri sette, così anche per gli ultimi quattordici genitori io mi trasformavo in un allenatore incapace, nonostante la convocazione e la maglia da titolare».
«Mi chiamo Milco, cercate un allenatore incapace?»
Questo è un articolo che ho già proposto ai tempi di una mia stagione alla corte di una squadra di un settore giovanile professionistico. Lo voglio riproporre in quanto proprio ieri, assistendo ad un incontro della categoria “Giovanissimi”, ho scoperto che il problema è sempre lo stesso, se non più rilevante!
Si dice con un po’ di sarcasmo che la squadra ideale da allenare è quella di “orfani”; beh., dopo ciò che ho visto ieri, ma soprattutto dopo ciò che ho udito, la battuta calza a pennello!!!
Claudio Damiani – Allenatore di Base
Tema quanto mai discusso, il triangolo genitore-figlio-allenatore nel mondo dello sport giovanile (ma non solo), è di rilevanza storica e attuale.
Il calcio è uno sport di squadra e come tutti gli sport di squadra si fonda su un gruppo di atleti-giocatori, diretti da uno o più tecnici.
Perché un gruppo sia sano è necessario che si basi su delle regole che da tutti devono essere rispettate.
In questi anni di militanza nel settore mi sono accorto di ragazzi (anche bravi), che hanno vissuto sin dai primi passi calcistici la culla dei complimenti perpetui dei genitori, parenti e amici (a volte anche di qualche dirigente), vivendo idolatrati all’inverosimile.
Il risultato?
La totale convinzione del bambino, poi ragazzo, di essere “invincibile”, di avere mezzi tecnici che lo possono proiettare molto presto nel calcio che conta: basta aspettare, perché prima o poi il futuro già disegnato si tramuterà in realtà.
Una situazione pericolosa che a volte porta la giovane psiche del ragazzo a dimenticare che per raggiungere il traguardo ci vuole lo sforzo, la fatica, il sacrificio: nessuno regala niente.
Il sentirsi superiore ai compagni ed essenziale per il gruppo costituisce un’errata e pericolosa impostazione della figura del ragazzo. Questo un allenatore lo sa.
Premetto senza dubbi che se la società si pone come obiettivi e la crescita dei ragazzi e il risultato sportivo, alla domenica schiero in campo la migliore formazione che ho a disposizione.
E i ragazzi che non partono tra gli undici o tra i diciotto?
Sono infortunati o malati;
sono squalificati;
hanno “saltato” il 60% delle sedute di allenamento (due su tre);
nel corso della settimana hanno dimostrato poca attenzione, scarso interesse (questi atteggiamenti molti genitori non li vedono!);
hanno mezzi tecnici o condizioni fisiche inferiori rispetto ai loro compagni (a volte non notano neanche questi importanti fattori).
Il problema sorge appunto quando, in relazione all’ultimo punto, un padre si convince o convince il figlio del contrario.
Molti genitori vivono con il desiderio che i propri figli debbano a tutti i costi diventare quello che essi non sono mai diventati in gioventù.
Ho conosciuto ragazzi che soggiogati da queste convinzioni si trovano smarriti alla prima esclusione per scelta tecnica, persi, non trovando spiegazione alcuna e dannatisi l’anima per un po’ si trovano isolati e soprattutto mal consigliati, finendo in moltissimi casi, con l’abbandonare l’attività sportiva con probabili sintomi di depressione.
Altri, più sportivamente “educati”, vivono il calcio serenamente per come deve essere vissuto; quando i genitori non mettono pressione al figlio, ovvero non gli fanno pesare la maglia dal numero dodici in su, anche il ragazzo saprà vivere la realtà dell’esclusione, la sostituzione nel modo in cui deve essere vissuta, ovvero con delusione ma non con rassegnazione, anzi.
In molti casi vengono scatenate delle polemiche tra genitori e società che non hanno motivo di nascere se non dalla rabbia di un padre o di una madre che non si capacitano del fatto che il proprio erede palesa dei limiti rispetto ai compagni di squadra e per questo gioca di meno. (Attenzione: gioca di meno, non ho detto non gioca!).
E sono a dir poco inquietanti e ridicole le antipatie che si creano tra nuclei famigliari ai bordi del campo dipendenti unicamente dal fatto che un ragazzo sia più titolare o meno rispetto ad un altro.
A volte, sembra paradossale, sono solo i genitori a “soffrire” la panchina del figlio, quando questi se ne sta tranquillamente seduto al fianco del mister a incitare i compagni vivendo lo sport come deve essere vissuto!
Senza voler fare di tutta l’erba un fascio intendo affermare che vi sono anche ragazzini “educati” a saper vincere e perdere, a non esaltarsi per le vittorie, ma anche a non abbattersi per delle sconfitte, a “digerire” le esclusioni e a non sentirsi “onnipotente”.
E questo tipo di educazione a chi spetta, chi la deve impartire?
L’allenatore, coadiuvato dalla società, ha il compito di educare allo sport, a insegnare i comportamenti da assumere in virtù delle attività da svolgere in campo (allenamenti, gare, vittorie, sconfitte, ecc.); egli ha altresì l’obbligo di correggere eventuali poco consoni atteggiamenti che avvengono al di fuori del rettangolo di gioco: in trasferta, all’interno dello spogliatoio, nei mezzi pubblici ecc.
Per educazione sportiva s’intende il miglioramento psicologico, tecnico-tattico del giovane atleta, l’insegnamento della sconfitta, della vittoria, dell’esclusione, della sostituzione nonché il rendere il gruppo consapevole che le regole sono uguali per tutti e le scelte le fa esclusivamente l’allenatore.
D’altra parte è messo lì per quello, e comunque, da quando il calcio è calcio l’allenatore è sempre stato a disposizione dei giocatori per uno o più eventuali dialoghi di chiarimento che, attenzione, non è detto debbano essere necessariamente di natura tecnico-tattica.
Bisogna però ricordare che la crescita di un ragazzo che vuole giocare a calcio o fare qualsiasi sport dipende in modo più che importante dall’educazione di base impartita dalle famiglie sin dal primo giorno di nascita del proprio figlio.
Concludo affermando che in una squadra di calcio, ogni domenica ci sono undici ragazzi contenti e sette ragazzi meno contenti; tra questi ultimi sette ce ne saranno sicuramente due o tre anche molto arrabbiati.
E’ normale: se non fosse così ci troveremmo a guidare delle squadre prive d’anima.
L’importante è prendere l’esclusione come motivo di rivalsa più che come motivo di resa e noi genitori questo abbiamo il dovere di insegnarlo!
L’inizio della stagione sportiva per una squadra di calcio è una delle fasi più delicate ed importanti dell’anno, in quanto proprio in tale periodo si gettano le basi sulle quali costruire un campionato.
Ciò vale per la preparazione fisica, che deve essere calibrata con gran cura ed equilibrio, in modo da arrivare gradatamente alla migliore forma, per garantire la massima continuità e assicurare il top della condizione in occasione degli “appuntamenti che non si possono sbagliare”.
È valido, altresì, per quanto riguarda la componente tattica, che proprio in quel periodo è esaminata, esercitata e messa a punto, per consentire ai giocatori di apprendere e all’allenatore di valutare la più ampia ed appropriata gamma di soluzioni tattiche a disposizione. Ma, non di meno, è soprattutto determinante la cura dell’aspetto psicologico, che un allenatore deve perseguire, cercando di fare una valutazione complessiva sia del singolo giocatore e sia della squadra.
In altre parole, non si devono considerare solo gli aspetti strettamente specifici (tecnici, tattici e fisici) del calcio: chi sa tirare, stoppare, passare la palla, chi sa coprire o aggredire gli spazi, chi è veloce, forte, resistente ecc.; si deve prestare particolare attenzione anche alle componenti intellettive, caratteriali, motivazionali e di relazione rispetto all’ambiente, alla società, all’allenatore stesso ed ai compagni.
Saper valutare il carattere dei singoli giocatori, le relazioni che intercorrono tra loro, le dinamiche di gruppo esistenti diventa fondamentale per individuare eventuali leader positivi e negativi all’interno di una squadra, ossia chi con il suo modo di essere e di rapportarsi con i compagni funge da elemento aggregante e trascinante e chi, invece, in prospettiva potrebbe generare problemi e avere la tendenza a disgregare il gruppo o comunque a ostacolare la coesione.
L’individuazione immediata del carattere e delle capacità intellettive dei singoli giocatori nell’ambito della squadra è un importantissimo elemento di valutazione: la “forza” o “debolezza” caratteriale, l’intelligenza, l’intuito di un giocatore possono essere effettivi o presunti e solo con il tempo e con il verificarsi di particolari situazioni probanti si possono avere validi riscontri.
Porre attenzione a questo aspetto permette, quindi, all’allenatore di calcolare e prevedere effetti e reazioni del singolo e del gruppo ai suoi comportamenti e alle sue decisioni.
In pratica, prima il mister riesce a inquadrare un suo giocatore sotto il profilo del carattere, dell’intelligenza e del modo in cui si relaziona con gli altri, prima saprà come comportarsi con lui, come parlargli, che cosa dirgli, come “gestirlo”.
Uno degli obiettivi che il mister deve perseguire, per formare il cosiddetto “spirito di gruppo”, è quello di favorire e alimentare in ciascun giocatore, se non l’amicizia, almeno la stima, il rispetto e la predisposizione al sacrificio (in termini calcistici, s’intende) nei confronti di tutti gli altri compagni: una squadra, infatti, è formata da individualità spesso profondamente diverse tra loro che vanno assemblate non solo in senso tecnico-tattico, ma anche dal punto di vista relazionale.
Il mister, quindi, deve essere capace di osservare le dinamiche del gruppo, intervenendo, con discrezione, solo laddove le relazioni interpersonali potrebbero rischiare di pregiudicare l’equilibrio e l’armonia del gruppo stesso o di parte di esso.
Sottolineo l’espressione “con discrezione”, in quanto non va dimenticato che l’allenatore, per quanto possa costituire un punto di riferimento per i giocatori, resta sempre, per così dire, un “estraneo”, un “altro” da loro.
Inoltre, nell’indispensabile bagaglio dell’allenatore, vi devono essere, oltre che una specifica competenza tecnico-tattica, anche alcune caratteristiche di buon comunicatore.
Infatti, ho riscontrato che i messaggi trasmessi da forme di comunicazione non verbale sono ben più incidenti rispetto a quelli verbali, per cui è consigliabile pensare bene prima di agire, poiché sono proprio le nostre azioni, anziché le nostre parole, a offrire i messaggi migliori: mancare o arrivare tardi agli allenamenti e alle partite, dirigere le sedute con scarsa voglia, non trasmette certo valori di disponibilità o d’impegno, sostituire, in ogni occasione, gli stessi giocatori, adducendo ogni volta una scusa diversa, non è certo esempio di sincerità.
Per ottenere il massimo dai giocatori, il mister deve usare le armi dell’autorevolezza, ovvero dimostrare di conoscere la materia-calcio, di saper coinvolgere appassionare i giocatori in quello che stanno facendo, di credere nelle cose che dice, di essere coerente con le proprie idee, di essere imparziale ed equo nelle decisioni e nelle valutazioni.
Tutt’altra cosa è l’autoritarismo, dietro il quale non di rado si nasconde, in realtà, insicurezza ed incapacità di instaurare un rapporto equilibrato con i giocatori: dire ad un giocatore “si fa così perché lo dico io”, significa alzare un muro di incomunicabilità che non può che creare malumori e tensioni all’interno del gruppo e perdita di entusiasmo e collaborazione.
Sulla base dell’esperienza vissuta durante la mia attività di allenatore di squadre di varie categorie dilettantistiche e di settore giovanile, ho maturato alcune considerazioni, che ora propongo come spunti per conseguire un miglioramento della propria capacità di dialogo con i giocatori:
• -prima di incontrare un nuovo gruppo si potrebbe inviare una lettera o telefonare a ogni calciatore per ben presentarsi ed instaurare un primo rapporto di comunicazione, consigliando alcuni esercizi fisici per mantenere una certa confidenza con l’attività sportiva;
• -riprendere periodicamente con la telecamera i giocatori durante una partita fatta, per poi rivedersi assieme, potrebbe essere un modo per far meglio comprendere i miglioramenti individuali e di squadra raggiunti;
• -eseguire periodicamente dei test (tecnici, coordinativi, fisici e situazionali) evidenziando pregi e difetti;
• -far scrivere ad ognuno la propria “formazione ideale”, oltre che divertire, può farci rendere conto delle dinamiche sociali del gruppo squadra.
Comunque, ritengo molto importante dedicare alcuni minuti del primo allenamento settimanale per discutere dell’ultima partita giocata: in questo caso, la partecipazione dei giocatori diventa fondamentale, in quanto troppo spesso, in questi casi, si assiste a veri e propri monologhi degli allenatori, soprattutto nei settori giovanili.
Invece, bisognerebbe stimolare l’intervento dei giocatori con domande del tipo: “come avete visto la partita?”, “come abbiamo gestito il possesso palla?”, “come abbiamo gestito le fasi difensive?”, “quali sono stati gli aspetti positivi della partita?”.
Aspettarsi un’iniziale situazione d’imbarazzo è più che normale, insistere incentivando la discussione è fondamentale. Accettare la vittoria e la sconfitta come elementi di normalità del gioco, analizzandone gli aspetti positivi e negativi, deve essere motivo di crescita importante, cercare i rimedi agli errori, discutendone assieme, deve diventare un imperativo imprescindibile.
La comunicazione non può ovviamente, prescindere dalla qualità del gioco di squadra: pensare di istituire un modello di alta partecipazione ed elevato coinvolgimento emotivo, in un modello di squadra prevalentemente basata su di un gioco ispirato solamente dalle qualità individuali e non collettive, è pura fantasia.
Tutti i giocatori devono contribuire alle fasi offensive e difensive, per cui è bene che, anche durante gli allenamenti, queste esigenze siano considerate e che, nell’attività di riscaldamento, nelle situazioni di gioco e nei giochi a tema, siano opportunamente sottolineate dall’allenatore: il possesso palla, i movimenti senza palla coordinati, la ricerca, la creazione, nonché la difesa degli spazi in modo collettivo, sembrano essere principi necessari al coinvolgimento di tutti gli elementi della rosa.
Alla fine, dunque, la tattica migliore per gestire il gruppo in modo efficace, è proprio il saper comunicare con i propri giocatori, i quali, bisogna ricordarlo, sono i veri artefici delle prestazioni sportive di una squadra di calcio.
Prima di parlare delle competenze dell’allenatore voglio parlare della posizione che esso occupa nel calcio.
L’allenatore è in bilico tra la considerazione e la stima dei suoi giocatori, del club, della stampa; a volte è stimato, lodato, apprezzato, altre volte (molto più spesso a dir la verità) rifiutato, criticato, disprezzato ed in ultimo esonerato.
Così come è responsabile di sconfitte e cattiva classifica, d’altra parte è figura paterna ed eroe nei successi.
E’ un dato di fatto che la stima nei confronti dell’allenatore non sia basata sul suo lavoro quotidiano, ma solo sul momentaneo successo o insuccesso.
Rapporto con i giocatori
L’allenatore occupa vari ruoli, il più importante dei quali è il rapporto con il giocatore. I giocatori nutrono aspettative nei confronti dell’allenatore e l’allenatore nutre aspettative nei confronti dei giocatori.
Aspettative dei giocatori: il tecnico deve possedere competenza tecnica e tattica, capacità di relazionarsi con loro, neutralità, sensibilità per i problemi dei singoli giocatori.
Queste competenze vengono applicate differentemente dal tecnico a seconda che questi si trovi in campo d’allenamento, sul terreno di gioco prima, durante e dopo la partita, negli spogliatoi e così via.
L’allenatore deve anche avere una personale linea di condotta nei confronti degli aspetti che coinvolgono la vita privata dei giocatori.
Aspettative dell’allenatore: l’allenatore si aspetta sempre il massimo impegno da parte del giocatore, competenza tattica e visione di gioco. Si aspetta anche obbedienza agli ordini impartiti, capacità di “fare gruppo”, responsabilità, fiducia e discrezione.
L’allenatore ed il Club
Il Club esige dall’allenatore successo, vittorie, buona classifica e che non si verifichino contrasti con giocatori che possano danneggiare l’immagine del club. Il club esige l’accettazione alla filosofia direzionale, solidarietà e lealtà con la direzione e con la squadra.
A proposito di conflitti, un aneddoto della mia permanenza presso il Bayern Monaco.
All’indomani di una sconfitta in Champions League con il Lyon (0:3) ho avuto una lunga conversazione con il Presidente del Bayern che mi ha mostrato grande comprensione; non più tardi di qualche ora, davanti a sponsor, stampa e televisione, il Presidente Franz diffamava la squadra in presenza dei giocatori. Kahn, Elber, Effenberg mi guardavano ed io già intuivo il conflitto che si preparava. Dovevo subito reagire.
Il dialogo fra noi:
Kahn e Effenberg: “Noi siamo dipendenti del Club, il Presidente comanda, abbiamo perso 3 a 0. Ci ha offesi, ha detto “squadra di scellerati”.
Effenberg: “Cosa risolverebbe un attacco contro Franz?
Ci vuole solidarietà all’interno della squadra, una forte reazione in campo”
Hitzfeld: “L’obiettivo principale, la migliore risposta che possiamo dare è quella di vincere la Champions League”.
Le aspettative dell’allenatore verso il club: assoluta indipendenza nella guida tecnica della squadra, tolleranza nel momentaneo insuccesso e solidarietà in tempi di crisi. Naturalmente si deve esigere il totale rispetto del contratto.
L’allenatore ed i tifosi
Le aspettative primarie del pubblico sono vittorie e successi. Al secondo posto viene il bel gioco, che sia bel calcio, che le partite risultino interessanti ed anche un pizzico di brivido non guasta.
Le aspettative del tecnico nei confronti dei tifosi: ci si deve aspettare almeno dal pubblico di casa una certa generosità e anche tolleranza nei momenti dell’insuccesso.
L’allenatore ed i media
Aspettative dei media: il rapporto con la stampa è generalmente piuttosto difficile, ma dipende molto dal carattere del giornalista – cronista che spesso vuole sapere già prima della partita la tattica che verrà adottata, o subito dopo la partita pretende un giudizio sul singolo giocatore.
Io non ho avuto seri problemi con la stampa, ho sempre preferito rispetto e distanza.
Aspettative dell’allenatore: tolleranza, generosità e stima, ma sempre nel rispetto della privacy personale.
Vi ho elencato tutti questi aspetti conflittuali che un allenatore deve saper gestire. Questo è un ruolo problematico e composto da molteplici qualità che il tecnico deve possedere, in una parola: competenza.
Competenza e serietà nel portare a termine con successo un contratto che si sottoscrive.
Le qualificazioni del tecnico (competenze)
Per guidare una squadra l’allenatore, oltre ad essere un tecnico deve essere un abile psicologo e pedagogista, deve possedere:
• competenza tecnica;
• competenza istruttiva;
• competenza nella guida della squadra;
• competenza psicologica.
Competenza tecnica
Da suddividere in due aspetti:
1) personale bravura nella visione di gioco ed esperienza sul campo;
2) conoscenza della teoria.
Non mi voglio dilungare sulle competenze in campo visto che chi legge avrà già un ottimo background alle spalle dovuto ai corsi ed agli aggiornamenti effettuati.
Competenza istruttiva
Nella moderna psicologia della guida di una squadra si distingue fra istruzione e guida della squadra. Nell’istruzione il compito delle parti (giocatori ed allenatore) è comune, si gioca sullo stesso livello.
La competenza come istruttore si esprime sia in allenamento sia in partita. La competenza tecnica, la creatività, la tattica e la capacità di motivare le proprie scelte (ordini e correzioni) sono la base di queste competenze.
Competenza nella guida della squadra
Inteso come rapporto interpersonale tra allenatore e giocatori. La cosa più importante è sicuramente il modo ed il tono nell’impartire la propria volontà. Il “come” vengono dette certe cose è assai più importante del “cosa” viene detto.
Possiamo distinguere due metodi di comunicazione:
1) possiamo comunicare mantenendo una certa distanza, dove ognuno ha il proprio ruolo; l’allenatore in questo caso impartisce con autorità i propri voleri.
2) Possiamo invece portare avanti un sincero rapporto umano con i giocatori basato su stima, lealtà, spirito di cameratismo, amicizia, simpatia, in una parola un vero rapporto di fiducia.
Un lampante esempio del mio trascorso presso il Bayern Monaco.
La squadra era sotto pressione, avevamo pareggiato la prima partita 1:1 con l’Herta Berlino; la seconda partita contro il Leverkusen abbiamo perso ed infine c’era da affrontare il superderby con l’Unterhaching.
Come è facile immaginare la tensione era alta, il venerdì durante l’ultimo allenamento Lizarazu si avvicina a Lothar Matthàus e gli da uno schiaffo. Matthàus fortunatamente non reagisce ma abbandona il campo d’allenamento. Dovevo intervenire immediatamente.
Chiamai immediatamente Lizarazu negli spogliatoi dove raggiungemmo Matthàus che già si stava recando sotto le docce. Era visibilmente offeso e con i nervi a fior di pelle.
Già immaginavo i sensazionalistici titoli sui giornali sportivi dell’indomani. Per non ingigantire l’accaduto dovevo riportare entrambi i giocatori di nuovo in campo.
Dopo 15 minuti di discussioni, anche accese fra i due ed io, finalmente sono riuscito a fargli stringere la mano ed a riportarli a terminare l’allenamento.
Nelle intenzioni del club le conseguenze per Lizarazu sarebbero state gravi, arrivando addirittura a non farlo giocare per vari turni, ma Matthàus prese le sue difese e quindi la società, con il mio benestare, optò per una multa di 15.000 marchi.
Non poteva venir lasciata impunita una così grave infrazione delle regole comportamentali. Potevo risolvere questa delicata situazione solo intervenendo subito, parlando ed ascoltando i giocatori.
I buoni rapporti tra noi e la sincerità che caratterizzò la discussione nello spogliatoio hanno risolto questa situazione difficile, senza aver dovuto imporre la mia autorità.
Non ero il solo arbitro tra i due, anche il club in quel momento ti osservava e giudicava il tuo modo di risolvere certe situazioni. Oltretutto c’era anche la stampa presente, e per evitare gravi scandali che inevitabilmente sarebbero stati ingigantiti.
Come allenatore non posso accettare che un giocatore abbandoni il campo. Mai.
La competenza che stiamo trattando non si riferisce solo al campo umano, ma anche al modo ed al tono con cui l’allenatore interloquisce con la squadra: il modo di commentare l’insuccesso ed il successo, le parole giuste da usarsi nell’intervallo fra i due tempi e durante la gara.
Anche se oggi si parla molto di cooperazione e di democrazia, l’allenatore, anche grazie alle sue competenze tecniche, ha il dovere di prendere decisioni autorevoli in materia di forma e svolgimento dell’allenamento, ordine tattico prima e durante la gara, sostituzioni, ecc. questa autorevolezza deve al contempo essere mitigata dal rapporto con il giocatore, lo dobbiamo saper ascoltare, dobbiamo fargli esprimere le sue idee e le sue opinioni.
Dobbiamo essere coscienti delle motivazioni del giocatore, dettate da fattori esterni (soldi, notorietà, prestigio) e fattori interni o emozionali (gioia del gioco, interessi, hobby, amicizie). Solo in questo modo si crea un clima di fiducia ed il giocatore si sente capito e preso sul serio.
Se la sua autostima cresce, di pari passo migliora anche il rendimento del giocatore. La conoscenza di questi elementi è fondamentale anche per la successiva motivazione sia del singolo che dell’intera squadra.
Competenza psicologica
Vuol dire comprendere per poi istruire. Vi sono tre ordini di competenza psicologica:
1) comprendere il singolo giocatore: capire dove è la sua forza o debolezza, individuare i suoi problemi o le sue preoccupazioni, la sua “salute” mentale del momento, quali sono le sue paure o le sue gioie; il giocatore si deve sentire capito, rispettato e accettato dal tecnico e dal gruppo.
2) comprendere il gruppo: avvertire eventuali disagi del gruppo, capire il ruolo del singolo giocatore all’interno del gruppo (leader, capro espiatorio, ecc.), individuare e capire i piccoli gruppi che si formano all’interno della squadra, siano questi gruppi formati per simpatie o antipatie personali, per successo o insuccesso, per età, ecc.
3) comprendere se stessi: comprendere gli altri è solo possibile se si conosce in primis se stessi, le proprie debolezze ed i propri punti di forza. Per capire se stessi è necessario guardarsi dentro, riflettere, ed esprimere se stessi nel proprio lavoro.
Come avrete certamente capito per me è molto importante l’aspetto umano, cerco sempre di capire il giocatore e cerco di guidare il gruppo così come a me piacerebbe essere guidato.
Se come allenatore sono capace di creare un’atmosfera positiva nel gruppo, questa si ripercuote innegabilmente in modo positivo sul rendimento della squadra.