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  1. Allenamento funzionale: prevenzione, potenziamento o riabilitazione?

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    Il concetto di “funzionalità” è ormai entrato nella terminologia e nella metodologia dell’allenamento contemporaneo. Ma quello che è necessario evitare, è il generalizzare l’inserimento dell’allenamento funzionale senza considerare il contesto.

    Mi spiego meglio: nel nostro articolo introduttivo abbiamo visto come sia necessaria una progressività esecutiva dei movimenti e delle caratteristiche del carico affinchè lo stimolo allenante sia efficace nel tempo. Il punto di partenza “comune”, deve poi essere direzionato verso gli obiettivi e la caratteristica degli atleti che abbiamo di fronte; in assenza di questa direzionalità, l’allenamento perde la propria efficacia.

    Il primo testo che lessi sull’argomento fu quello di Alberto Andorlini, probabilmente il libro che meglio rende l’idea di cosa sia l’allenamento funzionale. Quello che immediatamente mi affascinò, fu la possibilità di incrementare il carico ed il reclutamento delle fibre muscolari aumentando la difficoltà dell’esercitazione, senza la necessità di utilizzare i pesi tipici che si trovano in palestra; questo permette di effettuare carichi di forza con piccoli attrezzi, senza la necessità di andare in sala pesi.

    Infatti, ad esempio, se lo stimolo biologico principale per il miglioramento della forza massima è dato da ripetizioni ad impegno molto elevato e dalla durata di almeno 07-0.8” (Colli 2012), questo è possibile ottenerlo anche incrementando la difficoltà dell’esercitazione e non necessariamente con l’utilizzo di pesi elevati. Ma facciamo un esempio con lo squat per capirci meglio.

    Per effettuare un back squat con bilanciere con carichi orientati allo sviluppo della forza massima (serie di 4-6 ripetizioni), è necessario familiarizzare adeguatamente con il movimento (per gestire il carico sulle articolazioni e sulla colonna), farsi seguire da personale qualificato in grado di rilevare il massimale, utilizzare un peso considerevole (richiedendo assistenza) ed avere a disposizione l’attrezzatura di una sala pesi. Questo ci fa capire come, per motivi logistici e di tempo, sia difficilmente applicabile per la maggior parte degli atleti.

    Eseguendo uno squat monopodalico invece (cioè sfruttando il principio della funzionalità), è possibile utilizzare un carico estremamente inferiore (Colli 2012); non solo, sfruttando angoli articolari meno favorevoli sarà possibile utilizzare una porzione particolarmente elevata del proprio massimale senza l’aggiunta di carichi esterni.

    È ovvio che anche l’esecuzione dello squat monopodalico richiede l’aiuto di personale qualificato per l’apprendimento, ma non necessità dell’attrezzatura della sala pesi, si impara più velocemente e si riduce fortemente il rischio di problematiche alla colonna dovuto all’utilizzo di pesi elevati.

    Non solo, lo squat monopodalico è anche più specifico per molte discipline, visto che la corsa e gli spostamenti in molte discipline (come negli sport di squadra) sono di natura monopodalica; in più, l’aggiunta di eventuali sovraccarichi come manubri e kettlebell non va a sovraccaricare la colonna.

    Anche le varianti possibili possono indirizzare maggiormente lo sforzo verso una catena cinetica piuttosto che l’altra; ad esempio, mantenendo un peso nella mano controlaterale alla gamba in appoggio, sarà possibile far lavorare maggiormente i glutei (soprattutto il gluteo medio) e i muscoli che sostengono l’arcata plantare. Mentre, tenendo il peso solamente nella mano corrispondente alla gamba in appoggio, lavorerà principalmente la porzione mediale del quadricipite.

    Anche la propedeutica dello squat monopodalico è più semplice, in quanto viene effettuata solitamente con il solo sforzo eccentrico, quindi già particolarmente efficace per lo sviluppo della forza.

    Differenze tra lo squat classico e quello monopodalico in funzione dell’allenamento della Forza massima

    Una volta ribadita l’importanza della conoscenza dei movimenti funzionali, è necessario comprendere le differenze ed i punti in comune quando si tratta di applicarli al contesto (performance, prevenzione e riabilitazione) ed al gruppo di sportivi di riferimento. Infatti, il rischio è quello di eseguire progressioni allenanti che non siano completamente aderenti allo scopo prefisso, considerando l’allenamento funzionale come qualcosa di efficace a priori, senza adattarlo alla situazione.

    In questo post andremo a vedere come indirizzare le progressioni verso lo scopo prefissato, considerando il contesto di riferimento; non solo, alla fine potrete trovare anche gli approfondimenti per una corretta applicazione alla preparazione atletica nel calcio, in riferimento alla performance ed alla prevenzione infortuni.

    Performance, prevenzione o riabilitazione?

    Nella figura sotto, è possibile vedere un’immagine semplificata di quanto introdotto sopra, evidenziando come ogni obiettivo abbia elementi in comune e diversificati rispetto all’altro. Ma andiamo ora ad approfondire i concetti.

    Possiamo considerare l’allenamento funzionale finalizzato alla performance come la “ricerca dell’esaltazione della funzione”, nell’ambito preventivo come “l’evitare disfunzioni” e in quello riabilitativo come il “curare una disfunzione”.

    Prima di andare a vedere queste 3 differenze più nel dettaglio (e gli eventuali punti in comune), mi preme un’importante precisazione; anche se si parla di obiettivi e di progressioni esecutive, è fondamentale che l’atleta impari correttamente i movimenti che deve effettuare. Senza questo importante presupposto, qualsiasi tipo di intervento metodologico rischia di essere inefficace, se non addirittura deleterio; questo vale in particolar modo quando si prescrivono movimenti da fare in autonomia (come a casa) o quando si lavora in contemporanea con tanti atleti.

    In questi casi, è sempre necessario assicurarsi della corretta esecuzione dei movimenti funzionali prima di passare allo step successivo; questo non solo consentirà un allenamento più efficace, ma permetterà agli atleti di percepire con maggiori facilità eventuali asimmetrie ed anomalie posturali, per integrare un eventuale intervento correttivo.

    Performance come “esaltazione della funzione”

    L’allenamento funzionale in virtù della performance deve garantire principalmente sostegno e transfert; ma cosa significa?

    Per “sostegno” si intende lo sviluppo di tutte quelle abilità generali che permettono all’atleta di realizzare le proprie potenzialità dal versante biomeccanico; alcuni semplificano questo concetto con il termine “atletismo”, il quale forse rende meglio l’idea.

    La capacità di indirizzare correttamente le direzioni di forza degli schemi motori di base (e della disciplina praticata), con un’intensità e durata tale da ottenere il miglior rendimento, è lo scopo dell’allenamento funzionale in funzione della performance.

    Considerando che il sistema nervoso centrale riconosce i movimenti e non i singoli muscoli, è quindi fondamentale che i gesti si avvicinino il più possibile a quello che l’atleta effettua nella sua disciplina, utilizzando i movimenti funzionali come “veicoli” all’interno delle progressioni allenanti.

    Rappresentazione (modificata) dei movimenti funzionali

    Entriamo quindi nel concetto di “transfert”, cioè la possibilità di trasferire con l’allenamento specifico della disciplina, il supporto offerto dall’allenamento funzionale. Considerando la complessità del movimento (invece di utilizzare un approccio riduzionista) è ovvio che solamente l’utilizzo di determinati movimenti (e derivati) come lo squat, lo stacco, l’affondo, ecc. (vedi immagine sopra) possano garantire un transfert ideale. È poi ovvio che le varianti delle progressioni dei vari step, dovranno essere individualizzati in base alle caratteristiche del soggetto e della disciplina. Potete trovare alcuni esempi nel nostro articolo dedicato agli step dell’allenamento funzionale.

    Quello che è importante comprendere, è che se lo scopo è la performance e non sono presenti anomalie posturali, è particolarmente importante la specificità degli stimoli.

    Ma facciamo un esempio: per un runner che deve migliorare la propria forza muscolare specifica, i lavori con le salite (in forma continua o di ripetute) sono sicuramente i mezzi allenanti più adeguati; l’utilizzo di altri protocolli può risultare utile solamente se individualmente sono riscontrate lacune (come particolari carenze di forza in alcuni distretti, asimmetrie, ecc.) o generici fattori che portano alla necessità di effettuare specifici interventi in determinate popolazioni di atleti (vedi sotto “Potenziamento preventivo e/o individualizzato”).

    Se invece l’obiettivo è quello di migliorare la stiffness, il salto della corda rappresenta sicuramente il metodo più funzionale, dimostrato anche nello studio di Garcia-Pinillos et al 2020.

    Protocollo (adattato) tratto dallo studio di Garcia-Pinillos et al 2020. Clicca sull’immagine per ingrandire.

    Potete trovare un approfondimento nel rapporto tra stiffness, forza massima ed allenamento funzionale nel nostro articolo specifico.

    Ma facciamo ora l’esempio di approcci non proprio corretti, come l’utilizzo di superfici instabili (come bosu o tavole propriocettive) in discipline come il calcio; queste hanno poco senso se utilizzate ai fini della prestazione. Infatti, nel calcio la destabilizzazione dell’equilibrio avviene nei cambi di direzione complessi ed intensi, oltre che nei contrasti; in altre parole, l’instabilità della superficie non è una variabile discriminante dell’equilibrio nel calcio.

    In questi contesti, le superfici instabili troverebbero la loro utilità solamente per quei calciatori che hanno problematiche all’articolazione delle caviglie o al ginocchio; ma in questi casi, l’utilizzo di determinate superfici sarebbero parte di un protocollo riabilitativo o preventivo, a non finalizzato alla performance.

    Anche i protocolli di allungamento (finalizzati all’atletismo) dovrebbero essere il più possibile funzionale, infatti si parla di Allungamento funzionale e non di stretching.

    Potenziamento preventivo o individualizzato

    Come potete vedere dall’immagine sotto, questo approccio lo possiamo considerare in comune tra la parte riguardante la performance e la prevenzione. In sostanza, si tratta di lavorare con un “approccio preventivo” anche in assenza di problematiche (posturali, asimmetrie, ecc.) nei contesti in cui viene riconosciuto, per particolari variabili, un rischio di infortuni (o di sottoprestazione) individuale o di una popolazione di atleti; il tutto per migliorare pattern di movimento o ridurre il rischio di infortuni.

    Sostanzialmente questo approccio aiuta ad evitare che la ricerca della prestazione non vada a “disturbare” l’atletismo generale dell’atleta, incrementando il rischio di infortuni. Ma vediamo sotto alcuni esempi per essere più chiari.

    Il rischio di accorciamento del muscolo ileo-psoas è particolarmente frequente nel calcio; da come possiamo leggere in questo articolo di Paolo Terziotti, questo può portare ad un’antiversione del bacino che può essere causa di infortuni o problematiche agli adduttori o alla schiena. Quindi per un calciatore, anche in assenza di fattori di rischio di partenza, è importante mantenere durante la stagione un corretto grado di allungamento preventivo di questo muscolo. Stesso discorso vale per gli altri muscoli (come gli ischiocrurali) che possono andare incontro ad accorciamento e tutte quelle catene muscolari che possono andare incontro ad asimmetrie legate alla lateralità della disciplina.

    Cambiando disciplina e passando al running, è stato visto come l’indebolimento a cui va incontro il core in gara (soprattutto quelle più lunghe), possa essere causa di un incremento dello stato di fatica (con ripercussioni sulla performance) negli ultimi Km; di conseguenza, anche in assenza di problematiche o ipotonie muscolari, un adeguato allenamento del core è in grado di prevenire questo fenomeno, anche migliorando quella che è la percezione della fatica per tuta la gara. È comunque ovvio, che tale approccio debba tenere in considerazione le catene che più di altre possono andare incontro a fatica e lo sviluppo della forza orizzontale; potete approfondire l’argomento leggendo il nostro articolo dedicato all’allenamento del core per il runner.

    Finiamo con un esempio trasversale, cioè l’utilizzo dello squat monopodalico eccentrico per prevenire il DOMS (o genericamente il “mal di gambe”) alla catena estensoria; potete trovare una descrizione in questo video di Roberto Colli. Come si vede dal video, questo approccio può essere utile sia nel calcio (soprattutto ad inizio preparazione), sia nel running, per incrementare i livelli di forza eccentrica allo scopo di migliorare in discesa.

    Prevenzione come “evitare disfunzioni”

    Passiamo ora alla prevenzione vera e propria, che a mio parere si esegue nel miglior modo tramite l’approccio dell’Esercizio correttivo®; queste prevede un approccio tramite 3 step:

    • Valutazione posturale dell’atleta e dei movimenti: senza una valutazione che permetta di comprendere “anomalie”, è impossibile identificare i punti su cui effettuare la prevenzione.
    • Lavoro analitico: questo prevede di andare ad agire sulla catena (o anche sull’anello della catena) su cui è stata indentificata l’anomalia.
    • Lavoro di integrazione: questa fase (successiva a quella precedente) permette di far riacquisire il corretto atletismo ed i pattern motori della disciplina praticata.

    Ma andiamo a vedere nel dettaglio queste 3 fasi.

    Valutazione posturale dell’atleta e dei movimenti

    L’ideale è effettuare questo approccio in collaborazione tra chi si occupa della preparazione e personale fisioterapico (meglio se osteopata), oltre all’eventuale supervisione di personale medico (ortopedico o fisiatra); ancor meglio se ci si avvale di un esperto in biomeccanica. È importante non valutare solamente la postura statica, ma utilizzare anche test dinamici per individuare problematiche che non vengono evidenziate staticamente. Non mi dilungo ulteriormente su questo aspetto, perché richiederebbe diverso tempo; per approfondire i test posturali consiglio il testo Esercizio Correttivo® (di Luca Russo e coll) mentre per chi volesse approfondire la valutazione biomeccanica, consiglio il corso online di Biomeccanica di Mauro Testa. Per chi vuole invece approfondire la biomeccanica in un campo specifico come il calcio, consigliamo Biomeccanica nel calcio dello stesso autore.

    Lavoro analitico

    Questo tipo di approccio prende spunto dalla Teoria dell’anello debole (detto anche Paradosso dell’allenamento funzionale). Una volta indentificato l’anomalia posturale (o biomeccanica) si agisce sulla catena cinetica alla quale è riconosciuta la causa di tale problematica, o addirittura su un singolo anello della catena (come può essere un solo gruppo muscolare). L’obiettivo, ad esempio, può essere il rinforzo muscolare, oppure la ripresa di un corretto range of motion (quando sono presenti rigidità), il lavoro sull’elasticità, sulla stabilità, ecc.

    In questa fase, non necessariamente vengono utilizzati gesti motori monoarticolari, ma viene data la precedenza alla categoria dei movimenti funzionali di base (come quelli da decubito), oppure le varianti più semplici degli altri movimenti; questo affinchè l’intervento vada a colmare l’anomalia che genera la problematica.

    Ad esempio, se l’atleta ha una scarsa forza dei muscoli plantari (condizione frequente nei runner che utilizzano scarpe troppo ammortizzate), l’intervento analitico sarà mirato proprio allo sviluppo della sensibilità della volta, ed al rinforzo di tutti quei muscoli che permettono un appoggio del piede stabile ed efficace, a tal punto di permettere la massima riutilizzazione elastica della catena estensoria.

    Se invece si considera un calciatore con instabilità al ginocchio, l’obiettivo analitico potrà essere quello di far lavorare la muscolatura estensoria e flessoria in condizioni di equilibrio instabile.

    Lavoro di integrazione

    Si procede a questa fase quando l’anomalia individuata è considerata risolta; l’obiettivo è quello di restituire la giusta coordinazione ed efficienza dei movimenti, in funzione degli schemi motori di base e della gestualità specifica della disciplina. Accanto ai movimenti funzionali sarà importante anche effettuare un’ampia gamma di esercitazioni di rapidità coordinativa (vedi qui un esempio riferito al calcio), al fine di permettere all’atleta di allenarsi con il giusto grado di atletismo.

    Esercitazioni di rapidità coordinativa per il calcio; utili anche come “Lavoro di integrazione”

    Ma attenzione, la sottovalutazione di questa fase (cosa che purtroppo accade spesso) può portare a frequenti recidive; infatti, solitamente viene ricercata l’immediata ripresa della condizione in funzione della partecipazione alle competizioni non appena l’atleta non sente più fastidio o dolore.

    Ma può accadere che un infortunio o solo un fastidio, tendano a far assumere posture o movimenti in grado di modificare quello che è l’equilibrio dei riflessi motori, cioè quelli facilitatori e quelli inibitori; senza addentrarci eccessivamente in quella che è la fisiologia del sistema nervoso, è opportuno sapere che la contrazione muscolare può essere “facilitata” grazie all’attività dei motoneuroni gamma, che aumentano sensibilità/eccitabilità in base alla difficoltà del gesto motorio; vengono attivati quando si percepisce una maggiore difficoltà nell’eseguire il movimento. È questo il motivo per il quale, aumentando la complessità e la difficoltà del movimento (anche con carichi molto leggeri), è possibile allenare efficacemente la forza.

    Accanto alla loro funzione eccitatorie, esiste anche l’attività inibitoria dei GTO (Organi Tendinei del Golgi), in grado di inibire la contrazione quando il tendine è sottoposto ad eccessive tensioni. Altro elemento che ha effetti inibitori sono gli interneroni di Renshaw, interneuroni in grado di ridurre l’attività muscolare grazie ad un fenomeno di feedback negativo. Come spesso descritto da Sergio Rossi su linkedin, questi interneuroni, possono incrementare la loro attività a causa di un infortunio o di posture/movimenti errati dovuti a fastidi/dolori.

    La conseguenza, è che anche se guariti e ripristinati i livelli di forza delle catene, la loro attività può rimanere elevata al livello del sistema nervoso, influenzando il movimento della muscolatura coinvolta in un determinato movimento (solitamente accade a livello di un emilato).

    In questi casi, un’eccessiva attività degli interneuroni di Renshaw tende ad inibire il comportamento elastico ed esplosivo della catena; la conseguenza, nel medio-lungo termine, potrebbe essere quella di dare origine ad anomalie biomeccaniche e asimmetrie che prima o poi possono sfociare in ulteriori infortuni.

    È questo il motivo per il quale a seguito di un infortunio, ne possono seguire altri, anche in zone anatomiche diverse da quella iniziale. In questi casi, è necessario eseguire un’ulteriore Valutazione dei movimenti anche in questa fase, in maniera tale da essere certi di una completa ripresa motoria dell’atleta ed evitare successivi infortuni o recidive.

    Movimento antalgico preventivo

    Esistono approcci terapeutici nei quali eseguire determinati movimenti in presenza di fastidio o minimo dolore, è considerata una situazione ordinaria; questo in parte contravviene alla logica della riabilitazione, che mette al centro della ripresa e della terapia l’eseguire i movimenti in assenza di fastidio o dolore.

    Ma facciamo un esempio per chiarire meglio una di queste condizioni: fino a 15-20 anni fa le tendinopatie al tendine d’achille erano dei veri e propri incubi per i runner, in quanto potevano lasciare l’atleta senza correre per diverse settimane o mesi. In quei casi, l’intervento era solitamente di natura conservativa (al limite con terapie per velocizzare la scomparsa dei sintomi), seguito da una ripresa graduale; nonostante questo era possibile (e per alcuni runner frequentemente) andare incontro a recidive.

    Addirittura, 30-40 anni fa le case produttrici di scarpe da running iniziarono ad alzare il drop (cioè il dislivello tacco-punta) con la convinzione che ciò potesse ridurre il rischio di questi infortuni; di fatto, gli infortuni proseguirono, in quanto quella non era certamente la soluzione ideale per ridurre l’incidenza delle tendinopatie (guarda questo video se vuoi sapere come scegliere correttamente una scarpa da running).

    Ma la svolta all’approccio alle tendinopatie avvenne nel 1998 con la ricerca di Alfredson et al; nello studio, runner con diversi gradi di tendinopatia furono sottoposti ad esercizi eccentrici per la muscolatura dei polpacci. Caratteristica peculiare, fu che veniva richiesto di esercitarsi nelle fasi iniziali anche in condizione di fastidio o leggero dolore; riporto sotto la frase presa dalla pagina 4 della ricerca:

    The patients were told to go ahead with the exercise even if they experienced pain

    Quello che era importante, era evitare affaticamenti al muscolo; per questo, gli esercizi venivano somministrati in 3 momenti della giornata in singole serie.

    Gli effetti positivi di questo approccio scaturirono in ulteriori studi ed approfondimenti; infatti, dal 1998 al 2020 si possono contare fino a 53 ricerche sull’argomento. Ovviamente gli studi successivi portarono a perfezionare il protocollo, testimoniando come non solamente gli sforzi di natura eccentrica fossero efficaci nel trattamento (Beyer et al 2015).

    Quello che si è compreso, è che la tendinopatia all’achilleo, non è da considerare una problematica che coinvolge solo il tendine, ma tutta l’unità muscolo-tendinea, in relazione alla forza e all’elasticità che questa riesce a produrre. Non a caso, nello studio di Magusson ed al 2019, gli autori conclusero che anche la rimozione del carico meccanico sul tendine (cioè il solo approccio conservativo) fosse causa della riduzione della produzione di collagene e della disorganizzazione delle fibre.

    Per questo motivo, questo tipo di approccio può essere positivo anche se nella fase iniziale viene sperimentato fastidio o leggero dolore alla struttura interessata; non è da escludere (anche se manca un numero di studi sufficiente), che questo metodo possa essere efficace anche nel trattamento di altri tipi di tendinopatia ad altre strutture corporee.

    Quello che è importante, è il non effettuare un approccio “fai da te”, ma seguire le indicazioni di personale qualificato (fisioterapista o personale medico), in quanto il carico deve comunque essere individualizzato, cioè applicato in relazione alla gravità della patologia e diluito in più momenti della giornata per evitare affaticamenti eccessivi all’unità muscolo tendinea.

    Tutto questo per dimostrare come un approccio antalgico preventivo, possa essere considerata un criterio che ha in sé sia componenti relative alla riabilitazione che alla prevenzione.

    Riabilitazione come “curare una disfunzione”

    La riabilitazione prevede tutte quelle fasi in cui si favorisce il processo di guarigione e la successiva funzionalità motoria dell’atleta; è ovvio che più figure professionali prendono parte a questa fase, dal medico (ortopedico o fisiatra) al fisioterapista ed infine al preparatore atletico.

    Il fine ultimo di questa fase è quella di ridonare all’atleta il pieno atletismo e controllo del movimento, in funzione della successiva ripresa dell’allenamento specifico della disciplina.

    Quello che è importante, è come debba essere in primis il personale medico (al limite in accordo con le altre figure) a decidere e dettare i tempi della riabilitazione.

    Non mi dilungo ulteriormente per quanto riguarda questo ambito, in quanto è specifico in base al tipo di infortunio considerato ed altamente individualizzato in base all’atleta. Nella pagina di Performance Lab dedicata al recupero funzionale, potete trovare diversi approfondimenti.

    Conclusioni ed approfondimenti

    L’approccio funzionale al movimento facilita il processo di miglioramento della performance in quanto tiene in considerazione l’intera complessità dei gesti motori; consente di avere una visione globale e non riduzionistica del movimento. Per semplificare, tiene in considerazione la relazione tra le varie catene cinetiche, e non la singola somma degli effetti di ognuna. Questo permette di indirizzare lo stimolo allenante in direzione di rendere la performance efficace ed efficiente. Per approfondire al meglio l’allenamento funzionale consiglio il testo di Alberto Andorlini.

    Ma quello che è importante comprendere, è che a volte è comunque necessario un approccio più riduzionista, cioè in tutti quei casi in cui si identificano anomalie e carenze dovute ad una catena o ad un anello di essa; in questi casi, tipici dell’Esercizio Correttivo®, è necessario avere un approccio più analitico, per poi integrarlo, ritornando all’aspetto globale della funzionalità del movimento. È il caso di quando si tratta il gesto motorio non come performance, ma come prevenzione o riabilitazione. Per approfondire, consiglio il testo Esercizio Correttivo® di Luca Russo e colleghi.

    Per chi volesse invece approfondire questi argomenti in relazione alla preparazione atletica nel calcio, consigliamo il webinar Catene Miofasciali ed Allenamento di Marco Giovannelli.

    Puoi accedere a questo ed altri Webinar sottoscrivendo uno dei piani d’abbonamento mensili ed annuali a Performance Lab (garanzia 14 giorni). Applicando il Codice Promozionale MISTERMANAGER al momento dell’acquisto, avrai lo sconto del 10%.

    Se questo articolo ti è piaciuto e vuoi rimanere informato su tutti i nostri aggiornamenti e pubblicazioni, collegati al mio profilo linkedin.

    Autore dell’articolo: Melli Luca, preparatore atletico AC Sorbolo, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 ed Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto. Email: melsh76@libero.it

  2. Recensioni libri: ALLENAMENTO DELLA FORZA A BASSA VELOCITA’

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    Inauguriamo oggi una nuova rubrica dedicata alla recensione di “utility” per chi si occupa delle materie trattate nel nostro blog, cioè calcio, corsa e alimentazione. Iniziamo con la recensione di un testo del 2012, cioè l’Allenamento della Forza a bassa velocità (di Giampietro Alberti, Maurizio Garufi e Nicola Silvaggi), i cui principi sono già stati già approfonditamente sviscerati nei post specifici (prima e seconda parte). In questi post abbiamo confrontato questo approccio con gli Esercizi Alberti_AllenamentoForza_copertina_4luglioStatico Dinamici, trovando parecchie analogie, malgrado l’origine dei 2 metodi fosse completamente diversa. Riportiamo sotto le conclusioni a cui eravamo giunti:

    Nello specifico è stata riscontrata la capacità di incrementare/mantenere i vari indici di forza (massa muscolare, forza massima, esplosività, ecc) di entrambe le fibre muscolari, accoppiate ad un basso rischio di infortuni (da sovraccarico ed acuto) e un rapido recupero funzionale.

    Il testo è rivolto prevalentemente a: preparatori atletici, studenti di Scienze Motorie, istruttori di palestre, appassionati di pesistica/body building e allenatori che curano (nella loro attività) anche l’aspetto atletico. Il capitolo più interessante è sicuramente l’ottavo, perché illustra la variante (del metodo) più semplice, riportando la contestualizzazione nell’allenamento di atleti (tra i quali Nicola Vizzoni) di livello mondiale.

    ORIGINALITA’ DEI CONTENUTI

    L’allenamento della forza a bassa velocità descrive un metodo che sfrutta prevalentemente un singolo tipo di adattamento (cioè quello miogeno), rispetto agli altri metodi che sfruttano anche quello neurogeno.

    GRADO DI APPROFONDIMENTO DEI CONTENUTI

    Il testo sviluppa in maniera estremamente dettagliata sia la teoria (cioè l’aspetto fisiologico) che la pratica (diversi riscontri da parte di atleti di livello mondiale) di questo metodo.

    FACILITA’ DI APPLICAZIONE DEI CONTENUTI

    Tra i 2 metodi descritti, cioè la Serie Lenta a Scalare e la Forza a Bassa velocità, il secondo è sicuramente quello più facile da applicare nell’allenamento quotidiano, perché non richiede assistenza nei sollevamenti.

    RAPPORTO QUALITA’/PREZZO

    Purtroppo non esiste la versione digitale del libro (probabilmente perché è di 4 anni fà), ma i 20 Euro del formato cartaceo sono più che spesi bene; inoltre, comprandolo su Amazon, si può avere un discreto sconto. Clicca sull’immagine qui sotto per acquistarlo su Amazon

    ALTRI PRODOTTI RECENSITI:

    Importante: i giudizi dei libri che recensiamo riflettono quello che è la nostra opinione. Di conseguenza recensiamo solamente testi che abbiamo letto, approfondito e soprattutto che ci sono piaciuti.

    • MFC (Movimento Specifico Funzionale): indispensabile per tutti gli staff delle categorie giovanili (in particolar modo Giovanissimi ed Esordienti) che per prime affrontano la didattica difensiva; non è comunque un libro di nicchia, ma veramente utile a tutti allenatori e preparatori che curano l’aspetto neuromuscolare del calciatore a secco e con palla.
    • Studiare gli avversari…e se stessi: un libro per dilettanti e professionisti del calcio.

     

  3. Quanto incidono gli infortuni sul risultato finale?

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    Oggi affrontiamo un argomento molto importante (l’influenza sul risultato degli infortuni nel calcio), approfondendo una ricerca del 2013 che si prefigge di valutare se esiste correlazione tra tasso di infortuni e risultato nel calcio (vedi in fondo alla pagina i dettagli bibliografici). Diverse ricerche in passato avevano trovato correlazione tra infortuni e risultati con maggiore incidenza nei campionati delle nazioni calcisticamente più evolute, mentre non era stata trovata correlazione in tornei di nazionali giovanili e ai campionati di nazionali calcisticamente meno evolute.

    ricerca

    CARATTERISTICHE DELLA RICERCA

    Allo studio hanno partecipato le maggiori 27 squadre che hanno partecipato con regolarità alla UEFA Champions League dal 2001 al 2012. Il “risultato” era definito in base a 3 variabili:

    • Coefficiente UEFA
    • Media punti per partita
    • Classifica finale del campionato a cui si partecipa

    Le variabili relative agli infortuni invece erano le seguenti:

    • Numero di infortuni
    • Assenza in allenamenti e partite causa infortuni
    • Disponibilità dei giocatori nelle partite di Campionato e Coppe.

    L’unicità di questa ricerca ricerca (in confronto alle precedenti), è che correla 3 indici che caratterizzano gli infortuni con 3 indici che caratterizzano la performance, fornendo un’idea ben più vasta del fenomeno (proprio perché si basa su più variabili), rispetto alle precedenti indagini.

    RISULTATI

    Risultato 1: venne trovata una correlazione significativa tra un basso rischio di infortuni e le classifiche finali del campionato nazionale e competizioni europee per club. In altre parole, maggiore è il tasso di infortuni e minore è la probabilità di giungere ai primi posti dei campionati/tornei a cui si partecipa.

    Risultato 2: tramite l’utilizzo di più indici si è anche compreso che gli infortuni possono avere anche un “peso” diverso; cioè quelli che determinano una più lunga fase di ritorno alle competizioni sono quelli che maggiormente penalizzano le classifiche finali; quindi c’è da prestare particolare attenzione agli infortuni più gravi, come le lesioni ai posteriori della coscia, pubalgie e lesioni capsulo/legamentose (ginocchio e caviglie).

    squadre

    I risultati possono apparire scontati, ma ciò non lo è, visto che dai risultati di passate ricerche, i risultati erano contrastanti. Grazie all’analisi di più variabili, questo studio ha permesso di avere un approccio per la prima volta più approfondito. Il limite ovviamente è che “il campione della ricerca” erano i Top Team europei, quindi non è detto che tali considerazioni possano essere estese anche a livelli inferiori. In ogni modo è possibile ipotizzare che

    maggiore è l’omogeneità prestativa (tecnico-tattico-atletica) in un determinato contesto (campionato, torneo, ecc.) e maggiore sarà la differenza che l’approccio agli infortuni apporterà nei confronti dei risultati stagionali.

     

    CONCLUSIONI E SPUNTI APPLICATIVI

    penultimaPurtroppo l’analisi statistica della ricerca non evidenza la regressione tra performance ed infortuni, cioè di quanto (in termini di punti in un campionato o torneo) un determinato infortunio può influire. La significatività della correlazione dei 2 fenomeni (performance ed infortuni) è fondamentale per considerare, per i Top Club europei, l’investimento delle proprie risorse verso un corretto approccio a questo fenomeno!

    A tutti i livelli (compresi quelli dilettantistici), il rapporto tra performance ed infortuni implica un approccio multifattoriale che tenga in considerazione i seguenti aspetti:

    • Prevenzione primaria: pratica orientata alla prevenzione generale (cioè indifferenziata) degli infortuni. Già nel post dedicato al ruolo del preparatore atletico abbiamo trattato come questo aspetto sia di primaria competenza del preparatore.
    • Prevenzione secondaria: pratica preventiva individualizzata e finalizzata a quelle strutture anatomiche a rischio di recidive. Le recidive più frequenti sono le distorsioni (caviglie), lesioni muscolari (in particolar modo ischiocrurali), pubalgie (adduttori/diassetti del bacino), gonalgie (instabilità ginocchio) e le varie patologie da sovraccarico (come le tendinite).
    • Individuazione precoce dell’aumento del rischio: se alcuni infortuni possono avvenire (apparentemente) improvvisamente, per altri la sintomatologia ha un decorso progressivo (basti pensare alle pubalgie). Se a livello professionistico questo aspetto è abbastanza preciso e standardizzato (essendoci più figure professionali e metodi di indagine medica), a livello dilettantistico molto viene lasciato all’improvvisazione e all’esperienza. Chi si occupa dell’aspetto atletico (preparatore, massaggiatore, ecc.) deve avere un’accurata sensibilità nell’individuazione precoce dei fattori di rischio, cosa che prevede anche una “comunicazione” adeguata tra personale/giocatore e coraggio nel fermare un atleta a rischio, mettendo al secondo posto l’esigenza del risultato.
    • Intervento tempestivo post-infortunio, adeguata e veloce rieducazione-riabilitazione senza rischi di recidive: è un fattore che coinvolge più figure professionali (da chi soccorre l’atleta a chi si occupa della rieducazione), la cui “professionalità” e competenza determina il successo di un ritorno in campo senza rischi di recidive, con un protocollo di prevenzione secondaria (vedi secondo punto sopra) adeguata.
    • Massima collaborazione da parte dell’atleta: sembra un fattore secondario, strettamente dipendente dal “carattere” ed esperienza del giocatore. Se però, chi si occupa della parte fisico-atletica si dimostra competente, attento e professionale, sicuramente otterrà il massimo ascolto e disponibilità da parte dei giocatori!

    Concludo ribadendo che un corretto e professionale approccio (a qualsiasi livello) agli infortuni non è solo un fatto che riguarda “il risultato”, ma qualcosa che dimostra primariamente rispetto verso l’atleta che ripone speranze e fiducia nei confronti di chi lo prepara per raggiungere i propri obiettivi sportivi.

    ultima

    Bibliografia

    Autore dell’articolo: Melli Luca, preparatore atletico US Povigliese (melsh76@libero.it)

  4. Il ruolo del preparatore atletico “moderno” nelle squadre dilettantistiche

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    (Aggiornato al 02/11/2019)

    Con l’avvento del concetto di Potenza Metabolica è migliorata la comprensione del modello funzionale del calcio e di conseguenza anche degli aspetti dell’allenamento atletico.

    In ambito dilettantistico, il tempo limitato a disposizione riveste una variabile fondamentale che condiziona l’allenamento atletico (contrariamente ai settori professionistici); per questo motivo, il preparatore atletico che lavora in questi contesti deve avere un gran senso critico nella scelta della qualità (specificità allenante) e quantità (tempo a disposizione) dei mezzi proposti. Deve avere una

    dettagliata conoscenza della tecnica e della tattica calcistica, al fine di sapere percepire-valutare (anche senza mezzi tecnologici) visivamente le componenti biomeccaniche (il cervello lo possiamo ancora considerare come il miglior analizzatore biomeccanico esistente), atletiche e cognitive del calcio, al fine di supportare al meglio l’attività dell’allenatore.

    Riportiamo sotto, quelle che sono, a mio parere, le competenze specifiche che deve avere un preparatore atletico che lavora in ambito dilettantistico.

    1) MINIMIZZARE IL TEMPO E MASSIMIZZARE L’EFFETTO DELL’ALLENAMENTO GENERALE A SECCO

    Anche con l’avvento di una maggior conoscenza del modello funzionale, l’allenamento generale mantiene una porzione importante dell’allenamento atletico, per un’adeguata prevenzione degli infortuni, per stimolare adeguatamente le massime potenze (metaboliche e neuromuscolari) ed a sostegno della coordinazione. Questi mezzi allenanti devono rispondere ai criteri di specificità della disciplina.

    Carichi applicabili in un contesto dilettantistico

    2) SAPER PROGRAMMARE E SOMMINISTRARE L’ALLENAMENTO ATLETICO SPECIFICO IN COLLABORAZIONE CON L’ALLENATORE

    Saper fondere tecnica-tattica e componenti atletiche nello stesso mezzo, permette di massimizzare lo stimolo allenante; unire le competenze dell’allenatore (variabili tattiche significative per il gruppo considerato) con quelle del preparatore (variabili che mantengono un’intensità specifica adeguata) è fondamentale nello stabilire i mezzi allenanti. Ovviamente ciò implica il dover abbattere la barriera concettuale che vede preparatore e allenatore lavorare e programmare l’attività separatamente. Questo non riguarda solamente la programmazione degli allenamenti che hanno finalità atletico-tattica, ma anche l’adeguamento dei carichi di lavoro a secco a quelli somministrati dall’allenatore, al fine di evitare sovraccarichi ed infortuni. Infatti, uno dei rischi maggiori, nei casi di scarsa comunicazione/interazione tra allenatore e preparatore, è quello di eseguire carichi settimanali eccessivi o insufficienti.

    Altro aspetto collaborativo che ritengo importante è quello con il fisioterapista/massaggiatore della squadra; la gestione degli atleti infortunati (o anche con fastidi che possono propendere ad un incremento del rischio) dovrebbe seguire una priorità che va verso la salute dell’atleta, e non la presenza nella partita più prossima; è un approccio che paga nel medio-lungo termine, cioè sull’andamento di tutto il campionato.

    3) SAPER LAVORARE ADEGUATAMENTE SULLA PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI

    Mentre le squadre professionistiche hanno sufficiente tempo a disposizione per effettuare tutte le componenti dell’allenamento, nei dilettanti è fondamentale “minimizzare il tempo e massimizzare gli effetti” di tali interventi. Per questo motivo, il saper includere nell’allenamento generale stimoli che vanno in questa direzione (come la rapidità coordinativa, l’allenamento funzionale, un riscaldamento adeguato, ecc.) è fondamentale. È anche da ricordare che la fatica è una delle variabili che va ad incidere sul tasso di infortuni, quindi il carico dell’allenamento deve essere tale da preparare adeguatamente il giocatore al match. In Promozione, ad esempio, i carichi metabolici e neuromuscolari sono del 15-40% inferiori rispetto ai professionisti (Pasini 2015), ma la partita dura comunque 90’, ed il tempo per allenarsi è palesemente minore; da questo è possibile capire come sia fondamentale la ricerca del giusto compromesso tra volume ed intensità, finalizzato anche alla prevenzione infortuni.

    4) SAPER PROGRAMMARE RISCALDAMENTI TECNICI A DIFFICOLTA’ ED INTENSITA’ PROGRESSIVA

    Mentre la tecnica di base acquisita difficilmente viene “dimenticata”, la stabilità di questa in condizioni di fatica e rapidità deve essere costantemente allenata, affinchè il rendimento in campo sia adeguato. Il dedicare la prima parte d’allenamento a questo tipo di variabile (da parte del preparatore) a mio parere è fondamentale anche perché permette all’allenatore di potersi concentrare sulle altri parti dell’allenamento. A questo link potete vedere una trattazione più completa sull’argomento.

    5) SAPERSI DISTRICARE TRA CARENZA DI MEZZI E CONDIZIONI DEI CAMPI

    Condizione essenziale affinchè le carenze strutturali non diventino una “scusa”, ma uno “stimolo” a trovare soluzioni allenanti alternative che abbiano allo stesso tempo impronte significative. Tempo fa trovai in un video una frase interessante di Massimo de Paoli: “la differenza non la fanno i mezzi, ma le persone”.

    Ma quali sono gli aspetti più difficili?…ma anche quale deve essere il “punto di forza” di ogni preparatore

    Mi limito a riportare la mia esperienza, affinchè possa essere utile per gli altri. Il riuscire a somministrare carichi sufficientemente elevati, minimizzando il rischio di infortuni, è sicuramente la “sfida” principale del preparatore atletico; il tutto considerando sempre anche il carico effettuato dall’allenatore. Pensate a come velocemente oggi (anche solo rispetto a 15-20 anni fa) circolino i contenuti grazie al web ed ai social; l’accesso alla competenza non è più un limite come poteva esserlo una volta, quando vi erano pochi testi a disposizione su cui approfondire. Quindi è facile cercare e trovare mezzi allenanti da applicare ai propri giocatori, basta solo pensare alla mole di informazioni presente sul sito laltrametodologia.com. La difficoltà sta nel somministrare in maniera adeguata i mezzi, nel contesto di tempo e strutture a disposizione…in relazione al gruppo considerato. Infatti, aver la possibilità di lavorare più anni con la stessa società, permette sicuramente di conoscere meglio i singoli atleti e fare in modo che questi si abituino più velocemente ai carichi di lavoro. Competenza, esperienza, intuito e creatività sono sicuramente le doti maggiormente necessarie ad un preparatore.

    Ma quale deve essere il punto di forza di ogni preparatore che lavora a livello dilettantistico?

    A mio parere è “l’allenamento della coordinazione”; si perché in un contesto in cui il tempo a disposizione è sempre poco, lavorare su questa qualità ha ripercussioni positive su tanti aspetti della performance, come la gestualità tecnica, l’efficienza dei movimenti (e quindi la prevenzione infortuni e la potenza aerobica) e la rapidità. Non solo, molti aspetti coordinativi del movimento hanno un grado di stabilità maggiore nel tempo rispetto ad altre qualità come la potenza aerobica; per questo motivo, a mio parere, è possibile incrementare il carico di lavoro coordinativo (soprattutto tramite un aumento della difficoltà esecutiva e dell’intensità) durante la stagione, con miglioramenti evidentemente progressivi. Ma attenzione, affinchè ciò sia possibile, è da ricercare un continuo “innalzamento dell’asticella” dal punto di vista delle difficoltà richieste; questo richiede una continua ricerca ed approfondimento dei mezzi e varianti da utilizzare, che porta via diverso tempo in sede di programmazione. Per approfondire, potete leggere il nostro articolo sulla rapidità coordinativa.

    Se ti è piaciuto l’articolo, connettiti al mio profilo linkedin per rimanere informato sulla pubblicazione e aggiornamenti dei nostri contenuti.

    Autore dell’articolo: Melli Luca (melsh76@libero.it), istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960, preparatore atletico AC Sorbolo e Istruttore di Atletica Leggera GS Toccalmatto.

  5. Natural running e scarpe minimaliste (prima parte)

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    Il Natural Running e l’utilizzo di scarpe minimaliste sta diventando un argomento sempre più attuale; nato da una moda (quello del correre scalzi) e i cui elementi son successivamente stati approfonditi a livello scientifico al fine di comprendere se questo tipo di approccio alla corsa sia più o meno funzionale (dal punto di vista della performance e prevenzione infortuni) del comune approccio alle calzature sportive. Nel Documento odierno (la seconda pubblicata prossimamente) approfondiremo:

    • La visione concettuale del natural running
    • L’esito delle ricerche al fine di avere riscontri pratici
    • Proposte delle case produttrici in termini di calzature ed adattamenti

    natural

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    Puoi trovare l’indice di tutti i nostri post ed articoli sulla corsa nella nostra pagina dedicata al Running.

    Autore: Melli Luca, istruttore atletica leggera GS Toccalmatto (melsh76@libero.it)

  6. L’allenamento dell’esplosività nei dilettanti (seconda parte)

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    (Aggiornato al 06/03/2021)

    Nel post precedente abbiamo analizzato le caratteristiche ideali che deve avere l’allenamento per l’esplosività per i dilettanti; è stato anche introdotto il PRIMO STEP, tramite balzi in appoggio monopodalico prolungato per strutturare la Resistenza Muscolare Locale in maniera specifica (con un rapido Transfert) e con una corretta prevenzione degli infortuni. Nel post odierno presenteremo i 2 STEP successivi e le modalità di introduzione di questi mezzi nella programmazione dell’allenamento.

    figura 1

    SECONDO STEP (salti monopodalici intensivi ed estensivi)

    Una volta appresa corretta dinamica esecutiva e sviluppate le varianti del primo step, si può passare al secondo step. Anche in questo caso sono presenti più varianti:

    • Diagonale Hop con appoggio non prolungato: si esegue l’esercizio dello step precedente con la durata d’appoggio necessaria (quindi non forzatamente prolungata) per la giusta coordinazione del movimento in base alla distanza tra i cerchi. La distanza tra i cerchi dovrà essere tale da attivare in flessione dell’arto libero (cioè quello non appoggiato) facendo avvicinare il movimento ad un’andatura di corsa balzata in diagonale. È consigliabile predisporre almeno 2 percorsi con distanze leggermente diverse tra i cerchi, in maniera da adattare l’esercitazione all’altezza e all’esplosività dei giocatori; fondamentalmente, lo stimolo allenante viene dalla corretta esecuzione del movimento piuttosto che dalle distanze raggiunte.
    • Corsa balzata tra ostacoli bassi (estensivi): in questo caso, la corsa è lineare (1 appoggio ogni ostacolo) e i riferimenti ideali sono ostacoli bassi posti ad una distanza tale (si inizia da circa 2-2.5 metri) da stimolare una tipologia di corsa balzata (come specificato sopra). A differenza della variante precedente, si agisce maggiormente sulle catene muscolari responsabili della capacità di accelerazione e meno su quelle responsabili dei cambi di direzione. Le varianti sono relative al N° di ostacoli (8-12, a seconda della distanza tra ostacoli), alla distanza (che può essere costante, progressiva o degressiva) e alla presenza o meno della rincorsa (permette di utilizzare distanze maggiori). Anche in questo caso è consigliabile predisporre almeno 2 percorsi con distanze leggermente diverse.
    • Corsa tra ostacoli alti (intensivi): a differenza della variante precedente si lavora maggiormente sulla componente Esplosiva (accelerazione) e in misura minore sulla Resistenza Muscolare Locale (prevenzione infortuni). Il N° di ostacoli è limitato (idealmente 4-6) e l’altezza deve essere tale da stimolare una corsa balzata corretta, cioè con l’arto che attacca l’ostacolo in piena flessione (senza rotazione) e quello di stacco che si estende totalmente (senza rotazione con una rotazione minima). La distanza (indicativamente da 1.5 a 2.5m) tra gli ostacoli dipende dalla loro altezza e dalle qualità esplosive di chi effettua l’esercitazione. L’altezza degli atleti e la loro esplosività influenza fortemente la tipologia di ostacoli utilizzati, per questo è opportuno utilizzare almeno 3 percorsi di difficoltà diverse.

    figura 2

    TERZO STEP (pliometria varia di natura monopodalica)

    Viene mantenuta la natura monopodalica delle esercitazioni, ma si eliminano i riferimenti (cerchi ed ostacoli) per conferire maggior multilaterlità e variabilità alle esercitazioni. Non approfondiamo tutte le varie tipologie di gesti utilizzati (perché sono veramente tante), ma precisiamo che la priorità deve sempre essere data alla correttezza esecutiva del gesto proposto. Proprio per questo motivo, ritengo consigliabile passare a questo step solamente dopo che si è appresa la tecnica della corsa balzata e strutturate le catene muscolari con adeguati livelli di Esolosività e di Resistenza Muscolare Locale nei primi 2 step. Rientrano in questa tipologia di mezzi tutte quelle esercitazioni a carattere misto in cui balzi monopodalici sono alternati ad andature o azioni veloci a secco. Ricordiamo che il concetto di fondo è sempre quello di

    eseguire gesti monopodalici che presentano la completa estensione delle 3 articolazioni dell’arto inferiore (anca/ginocchio/caviglia), sviluppando nel minor tempo, la maggior forza possibile con quel determinato movimento.

    figura 3

    CONCLUSIONI ED APPLICAZIONI PRATICHE

    Il training per i dilettanti deve tenere in considerazione un adeguato rapporto tra allenamento Generale e Specifico, per garantire i giusti stimoli allenanti in funzione della partita, preservando dagli infortuni. Il minor tempo a disposizione (rispetto ai professionisti) obbliga a garantire un certo livello di specificità anche per i lavori a carattere Generale (come possono essere i balzi); considerando anche un aspetto preventivo nei confronti degli infortuni (specificità e Resistenza Muscolare Locale), l’utilizzo dei 3 STEP presentati in questi 2 post la ritengo la soluzione ottimale per lo sviluppo delle componenti esplosive del movimento. Mentre il I° STEP lo considero un elemento fondamentale per tutte le categorie (che può essere anche utilizzato come stazione in mezzi per la Rapidità coordinativa), l’introduzione dei 2 successivi, dipende fortemente dal tempo a disposizione e dagli obiettivi di ogni squadra:

    • Se ci si allena 3 volte a settimana è possibile introdurre esercitazioni del II°-III° step nella seconda seduta (dopo che si è lavorato nel periodo precedente sul I° STEP) tenendo in considerazione che è un mezzo di importanza Generale.
    • Le pause tra le partite ufficiali che superano i 10 giorni (sospensioni per maltempo, pausa invernale, pausa Pasquale, ecc.) sono il periodo ideale per affrontare questo tipo di esercitazioni (II° e III° step).
    • Un corretto lavoro settimanale finalizzato alla Resistenza Muscolare Locale a carico naturale (affondi, Nordic Hamstring Stretching, potenziamento muscolatura del tronco, ecc.) riduce sicuramente il rischio di infortuni, e crea i presupposti anatomici per affrontare con minor rischio il lavoro per l’esplosività.

    Concludiamo ribadendo che la correttezza esecutiva dei gesti durante le esercitazioni rivolte allo sviluppo dell’esplosività deve avere la precedenza rispetto agli altri parametri (altezza e lunghezza di salto). Solo in questo modo il transfert nei gesti specifici del calciatore (accelerazione, cambi di direzione e a mio parere anche economia del movimento) sarà ottimale; l’aumento del carico di lavoro a mio parere è da preferire sul versante dell’intensità (piuttosto che sul volume), in quanto il volume, gia di per sè, si ottiene con l’allenamento specifico (N° di cambi di direzione, N° di accelerazioni, ecc.).

    Per chi vuole approfondire l’argomento della pliometria, consigliamo il Webinar di Andrea Gobbi Plyometric Training; nel webinar viene inizialmente analizzato lo stimolo fisiologico che caratterizza questi mezzi allenanti, per poi passare all’aspetto pratico, considerando progressioni esecutive adattabili agli atleti.

    Puoi accedere a questo ed altri Webinar sottoscrivendo uno dei piani d’abbonamento mensili ed annuali a Performance Lab (garanzia 14 giorni). Applicando il Codice Promozionale MISTERMANAGER al momento dell’acquisto, avrai lo sconto del 10%.

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    Autore dell’articolo: Melli Luca, preparatore atletico AC Sorbolo, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 ed Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto. Email: melsh76@libero.it

  7. Gli infortuni del corridore: cosa può fare l’atleta

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    Il documento scaricabile di oggi mira non tanto ad approfondire la cura dei singoli infortuni del runner (che va affidato a personale qualificato), ma a comprenderne le cause per rendere il runner più consapevole di quelle che sono i fattori di rischio e gli elementi che possano aiutare a prevenire questi eventi. Per ogni patologia saranno affrontati:

    • Le cause più probabili (fattori di rischio) che possono dare origine ad un determinato infortunio
    • Cosa può fare il runner alla comparsa dei primi sintomi (partendo dal presupposto che non ci si può sostituire alla diagnosi di personale qualificato).
    • Il ritorno alla corsa dopo il periodo di stop
    • La prevenzione di recidive (prevenzione secondaria)

    Il nostro documento ovviamente non si può sostituire a quello che è il ruolo di figure professionali (Ortopedici, Fisioterapisti, ecc.) deputati alla cura di queste patologie, ma vuole essere una guida per aiutare il runner a comprendere al meglio questa tipologia di eventi al fine di individuare la corretta strutturazione dell’allenamento al fine di prevenire e individuare precocemente gli infortuni. Elenco patologie trattate:

    • TALLONITI
    • TENDINOPATIE (Tendine d’achille)
    • TENDINITE AL POPLITEO
    • STIRAMENTI
    • CONTRATTURE
    • PATOLOGIE ALL’ARTICOLAZIONE DEL GINOCCHIO
    • DISTORSIONI ED INSTABILITA’ DELLA CAVIGLIA
    • PERIOSTITE TIBIALE
    • PUBALGIA

    Scarica il documento sugli infortuni

    Nel Documento non sono trattati i Crampi, perché gia approfonditi in un altro post. Per chi volesse approfondire ancor di più l’ergomento, consiglio il libro di Tom Michaud, Injury free Running.

    Autore dell’articolo: Melli Luca, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960, preparatore atletico AC Sorbolo ed Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto. Email: melsh76@libero.it

  8. I crampi: prevenzione e cura

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    (aggiornato al 07/07/2021)

    Chissà a quanti atleti sarà capitato, dopo tanti Km di gara, il manifestarsi di un crampo che ha compromesso definitivamente l’esito della competizione proprio nel momento decisivo; oppure quanti allenatori/preparatori abbiano visto alcuni dei loro giocatori in preda ai crampi (con la necessità di sostituirli) in un finale di partita, quando l’esito del match è ancora in bilico. Il crampo non è dovuto alla “sfortuna”, ed in questo articolo andremo a vedere quali sono le cause, i rimedi, ma soprattutto come prevenirli, in particolar modo per chi ne soffre frequentemente. Partiamo quindi con la definizione e caratteristiche di questo fenomeno.

    Il crampo è una contrazione involontaria e acuta (spasmo) del muscolo scheletrico.

    Malgrado a livello scientifico non si sia ancora riusciti a comprendere a pieno le cause, si sa che la maggior parte degli atleti che ne soffre, lo fa nella prima parte della stagione, quando non è ancora sufficientemente allenato o quando effettua sforzi d’entità superiore al proprio grado d’allenamento (tempi supplementari, gare oltre i 250 Km nel ciclismo o maratona per i podisti). Ciò porta ad ipotizzare che la causa principale sia il livello d’allenamento “non sufficiente” abbinato ad un elevato “livello di fatica. Andiamo ora ad analizzarne cause, rimedi e prevenzione!

    Com’è possibile vedere dall’immagine sopra, la regolazione involontaria della contrazione muscolare (cioè quella che determina il crampo) è determinata dall’interazione delle cellule nervose del sistema nervoso periferico (motoneuroni, interneuroni e fibre sensitive) situate non solo nel muscolo coinvolto nella contrattura, ma anche della pelle che lo riveste e del muscolo antagonista. Questa complessità porta ad ipotizzare che

    una “non compensazione” fisiologica tra i meccanismi responsabili dell’eccitazione/rilassamento muscolare rende i muscoli iper-eccitabili, facilitando quindi l’insorgenza del crampo.

    La durata media del crampo va da 1’ a 3’ e coinvolge prevalentemente i muscoli multiarticolari (gastrocnemio, flessori della coscia, ecc.) in posizione “accorciata”.

    Nonostante la scarsa conoscenza scientifica, diversi anni di studi ed esperienze hanno comunque portato a concludere che le variabili più importanti scatenanti i crampi sono:

    • Predisposizione individuale: rappresenta la variabile più evidente che può predirne l’insorgenza (O’Connell et al 2013). In alcuni sport, come il ciclismo, una posizione sul mezzo errata rappresenta una variabile che può favorire i crampi. Inoltre, i crampi sono più frequenti negli uomini rispetto alle donne (Nelson e coll 2016).
    • Sovraccarico muscolare/fatica muscolare: rappresenta la causa più specifica del crampo. In questi casi, l’allungamento passivo e/o l’abbassamento del “carico” permettono di alleviare la sintomatologia.
    • Perdita di sodio tramite sudore: rappresenta una causa “generale”, la più “debole”, non supportata da evidenze scientifiche (non è mai stata ampiamente confermata a livello sperimentale); in ogni modo, non è chiaro se la causa possa essere la sola disidratazione o la il tasso di perdita di sodio (Jahic e coll 2018).

    CURA DEL CRAMPO

    In alcune discipline d’endurance (come l’atletica leggera o il ciclismo), l’insorgenza del crampo compromette seriamente la performance costringendo l’atleta a rallentare notevolmente l’andatura; in questi casi, la riduzione delle tensioni emotive, il massaggiare la pelle sopra il muscolo colpito (o massaggiare il muscolo stesso) e un breve stop per allungare la muscolatura rappresentano gli interventi più adeguati, ma che possono ridurre la sintomatologia solo in parte. In aggiunta, può anche risultare efficace (sono necessarie ulteriori ricerche per confermarne gli effetti) l’iperventilazione (20-30 respiri profondi al minuto), probabilmente per ridurre la tensione (Murphy e coll 2011).

    Negli sport di squadra la situazione è leggermente diversa perché spesso determina l’interruzione della partita (il crampo in tal caso è considerato come un “infortunio”) consentendo al fisioterapista/massaggiatore di intervenire. In questi casi, le cure (allungamento muscolare, massaggio o anche un raffreddamento temporaneo) possono essere applicate con più efficacia, ma la maggior parte delle volte la performance dell’atleta risulta compromessa.

    Dal punto di vista dell’integrazione, si sta diffondendo l’interesse verso il succo di cetriolo. In questo caso, le evidenze sul campo sono principalmente anedottiche e le poche ricerche sperimentali effettuate (sebbene riportino risultati promettenti), non sono state fatte in condizioni reali; infatti, molte di queste sono state effettuate tramite protocolli da laboratorio o in situazioni di crampi indotti elettricamente. Si ipotizza che i “possibili” effetti indotti dall’assunzione (circa 60 ml di succo di cetriolo), siano dovuti alla presenza di acido acetico, in grado di influire su un riflesso orofaringeo che andrebbe a ridurre l’ipertono muscolare nel giro di poco tempo.

    In conclusione, la cura del crampo non sempre può risultare efficace, per questo motivo diventa fondamentale la prevenzione.

    PREVENZIONE DEL CRAMPO

    La prevenzione rappresenta la forma migliore per “salvarsi” da questo tipo d’evento; di seguito riportiamo le variabili essenziali su cui possono lavorare gli staff ed atleti.

    1) Capacità di gara

    La prima barriera difensiva contro il crampo è rappresentata da un corretto allenamento, cioè dal presentarsi alle competizioni con una condizione fisica improntata non solo sulla “velocità di gara”, ma anche sulla “capacità di gara”; per “capacità di gara” s’intende quella componente della performance (in qualsiasi disciplina) che permette di prevenire l’abbassamento dei livelli di potenza dovuti alla fatica.

    Ad esempio, per un maratoneta la forma d’allenamento elettiva è rappresentata dai mezzi che permettono di correre a ritmo gara in condizione di deplezione di glicogeno (come i lunghi-progressivi o i bigiornalieri), mentre per un calciatore i mezzi per la potenza aerobica o i mezzi specifici a carattere estensivo (meglio se svolti in condizione di pre-affaticamento). Un ottimo consiglio è quello di non prendere parte a competizioni sportive per le quali non si è adeguatamente allenati; allo stesso tempo è necessario riprendere gli allenamenti (dopo periodi di pausa/sosta) in maniera graduale. Altro consiglio essenziale, è quello di evitare di partire troppo veloce, in quanto un affaticamento precoce probabilmente incrementa la probabilità di andare incontro a crampi (Martinez-Navarro et al 2020); a questo particolare dovrebbero portare particolarmente attenzione chi è facilmente soggetto ai crampi.

    2) Resistenza muscolare locale

    Le ricerche del Team Sky (ora Team Ineos) di ciclismo hanno portato a comprendere come i crampi colpivano prevalentemente i muscoli di quei ciclisti che avevano bassi livelli di forza muscolare. In diversi casi, un adeguato protocollo di potenziamento muscolare ha contribuito a ridurre il numero degli eventi, l’intensità dei crampi ed a ritardarne l’insorgenza.

    Analogamente è stato visto in un gruppo di maratoneti (Martinez-Navarro et al 2020), che quelli maggiormente affetti dai crampi presentavano (dopo la gara) elevati livelli di CK e LDH nel sangue, cioè 2 indicatori di microlesioni muscolari indotti dalla fatica. Non solo, l’incidenza del crampo era correlata alla “non effettuazione” di protocolli di potenziamento; in altre parole, chi effettuava potenziamento muscolare aveva meno probabilità di presentare i crampi.

    È quindi ragionevole ipotizzare come negli sport di endurance, un’adeguata Resistenza muscolare locale specifica possa aiutare a combattere i crampi. A differenza della Capacità di gara indicata sopra, la resistenza muscolare locale (abbreviata in RML) permette di mantenere un elevato livello di produzione di forza (non solo di potenza) nel tempo, senza che la fatica ne comprometta l’efficienza; è quindi in grado di influenzare la Capacità di Gara insieme alla produzione metabolica di energia, ma è da curare particolarmente per quei soggetti che hanno bassi livelli forza muscolare.

    Per i runner, potete trovare nel nostro post dedicata alla Forza ed alla Velocità quali sono i protocolli possibili, anche costituiti da corse (non solo potenziamento con pesi). Per chi corre i trail, è anche fondamentale l’attitudine e l’abitudine a correre in salita ed in discesa.

    Alcune ricerche (Nelson e coll 2016), hanno visto come possa essere importante la tecnica esecutiva, soprattutto negli sport ciclici (come la Tecnica di corsa per i runner); una tecnica esecutiva scorretta o uno squilibrio muscolare, possono indurre affaticamenti localizzati in grado di indurre il crampo anche quando il soggetto ha una Capacità di Gara adeguata. In questi casi una Valutazione funzionale effettuata da personale competente è in grado di fornire indicazioni utili per l’allenamento

    È più difficile comprendere se tali interventi metodologici possano essere efficaci anche nel calcio; questo perchè il carico interno (che determina la fatica) varia in base a diversi aspetti della partita (schema tattico, risultato, ecc.). Anche in questi casi, un’accurata Valutazione funzionale e un’analisi della casistica del giocatore (cioè se è abituale o meno ai crampi) può aiutare a formare il giusto approccio preventivo; questo partendo dal presupposto che anche nel calcio la resistenza muscolare locale e la coordinazione rivestono un ruolo fondamentale nel ritardare gli effetti della fatica.

    3) Idratazione ed integrazione in gara

    Quest’aspetto ha prove solamente anedottiche (cioè non suffragate da un numero sufficiente di evidenze scientifiche in mabito sportivo) a supporto. Infatti, non esistono link diretti tra disidratazione, perdita di sali e crampi nello sport. Ovviamente un’adeguata idratazione è fondamentale (per gli aspetti legati alla fatica e alla prevenzione della disidratazione), ma sembra non rivesta un ruolo importante nel crampo se non dal legame che può avere con l’insorgenza della fatica; allo stesso modo è fondamentale anche l’apporto di carboidrati e sali, in sforzi che superano una certa durata. Nel nostro articolo sull’Integrazione ed idratazione negli sport di resistenza, potete trovare tutte le informazioni utili per gestire al meglio quest’importante aspetto nelle discipline di endurance.

    In più, sarebbe interessante valutare anche quanto l’acclimatazione (cioè l’abitudine a praticare sport in climi torridi) possa influire sui crampi e quindi prevenirli. Per maggiori informazioni, potete leggere il nostro post dedicato all’allenarsi e gareggiare al caldo.

    4) Altre strategie attualmente non supportate da evidenze scientifiche

    L’esperienza di diversi atleti rivela come l’utilizzo di indumenti compressivi, possa migliorare la coordinazione muscolare (elasticità) a causa della riduzione delle vibrazioni; questo permetterebbe, in linea teorica, di ritardare l’insorgenza della fatica e di conseguenza l’origine del crampo. Questo aspetto è evidente tanto più è basso il livello di forza (soprattutto la stiffness) dell’atleta. È da precisare, che attualmente non esistono ricerche scientifiche a riguardo, ma solo l’esperienza di diversi atleti; ribadiamo comunque che gli indumenti compressivi sono parzialmente in grado di compensare livelli di stiffness non adeguati e ritardare l’insorgenza della fatica, cioè 2 fattori chiave (vedi sopra) nell’insorgenza del crampo. Puoi approfondire l’argomento leggendo il nostro post sulle calze compressive.

    Conclusioni

    Attualmente non è ancora possibile stabilire con esattezza il peso delle varie variabili che influenzano i crampi (fatica, livello d’allenamento, predisposizione individuale, ecc.). Quello che è fondamentale comprendere, è che questo fenomeno è causato da un alterato controllo neuromuscolare nella quale la fatica centrale e periferica giocano un ruolo fondamentale (Nelson e coll 2016). Di conseguenza, le strategie migliori per prevenire i crampi per quei soggetti che sono maggiormente predisposti sono:

    • Presentarsi alle competizioni sportive solamente se adeguatamente allenati ed acclimatati per lo sforzo che si andrà a fare.
    • Incrementare i carichi di lavoro gradualmente nella prima parte della stagione.
    • Curare in allenamento la resistenza muscolare locale (soprattutto se si è facilmente soggetti ai crampi) e la tecnica/coordinazione tipica della disciplina praticata.
    • Impostare un ritmo gara ottimale (nelle competizioni di endurance), gestito in base alla distanza e alle proprie condizioni di forma, per evitare che nel finale la fatica faciliti l’insorgere del crampo. Adottare, quando necessario necessario, le strategie più adeguate di idratazione ed integrazione in gara e nel pre-gara (carico di carboidrati).

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    Autore dell’articolo: Melli Luca, preparatore atletico AC Sorbolo, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 ed Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto. Email: melsh76@libero.it

  9. Prevenzione infortuni e il protocollo 11+

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    (Aggiornato al 09/12/2021)

    Il protocollo “FIFA 11+” o semplicemente detto “The 11+” nasce dall’esigenza di creare un riscaldamento “universale”, cioè che possa essere effettuato da tutte le categorie di calciatori e che abbia l’effetto di prevenire gli infortuni. Infatti, a tutti i livelli l’incidenza degli infortuni assume un peso significativo sulla disponibilità dei giocatori, e di conseguenza anche sul risultato finale. Essere in grado di ridurre questo tipo di incidenza in maniera significativa, avrà un peso sull’esito finale del campionato.

    Proprio per questo motivo, il F-MARC (FIFA Medical and Research Centre) ha disegnato questo programma con lo scopo non solo di “riscaldare” il calciatore, ma anche di prevenire gli infortuni. Essendo uscito nel 2006, oggi è possibile avere la risposta ai dubbi e quesiti sorti quando questo protocollo è stato presentato. In particolar modo:

    • Si è dimostrato un metodo valido per la prevenzione infortuni?…in altre parole, le ricerche pubblicare in bibliografia internazionale che esiti hanno avuto?
    • Perché, nonostante l’uscita di questo protocollo, gli infortuni in ambito professionistico non sono diminuiti?
    • Che contributo può dare, questo metodo, a chi opera a livello dilettantistico?

    Partendo dal presupposto che da una pubblicazione del F-MARC si possono comunque trarre indicazioni interessanti, cercheremo di dare le risposte ai quesiti sopra elencati. Ma vediamo ora nel dettaglio cos’è il “FIFA 11+”.

    Caratteristiche del programma

    Nella figura a fianco è possibile vedere il poster principale (per ingrandire, basta cliccare sull’immagine); a questo link è possibile scaricare il manuale completo, mentre a questo i video esplicativi.

    Il protocollo dura 20’ circa e si divide in 3 parti; semplificando, la prima di attività di riscaldamento (corsa lenta e mobilizzazioni), la seconda di core stability e resistenza muscolare locale, mentre la terza di azioni ad alta intensità. Sono presenti 3 livelli di difficoltà, in base al grado di esperienza e livello di preparazione dei giocatori. È consigliata l’esecuzione 2-3 volte a settimana per giocatori dai 13 anni in su. Gli unici attrezzi necessari per lo svolgimento sono dei cinesini e nei primi 2 livelli qualche pallone.

    Cosa dice la bibliografia internazionale

    Dalla sua pubblicazione, sono uscite diverse ricerche che ne hanno valutato l’efficacia ed anche diverse meta-analisi, cioè studi che analizzano i risultati delle varie ricerche, cercando di dare un dato unico conclusivo in termini di efficacia di un determinato protocollo. L’ultima meta-analisi (ad oggi, vedi data ad inizio articolo) è quella di Al Attar et al 2019, in cui venne estrapolato come il FIFA 11+ fosse in grado di ridurre il rischio di infortuni del 34%.

    A questo punto sorge una domanda; come mai, malgrado una riduzione del rischio così significativa, a livello professionistico si trovano ancora così tanti infortuni?

    La risposta risiede nel fatto che la maggior parte degli studi è stata effettuata su calciatori di livello dilettantistico o giovanile; nei professionisti le richieste fisico-atletiche in termini di allenamento e performance sono superiori, e tali da richiedere interventi di personalizzazione dell’allenamento che non sempre sono in grado di preservare l’atleta dall’infortunio. In questi contesti la prevenzione degli infortuni diventa un’arte, piuttosto che una scienza, cioè fortemente dipendente dalla bravura di chi prepara gli atleti e dalle scelte di far giocare o meno un calciatore in situazioni limite.

    Ma torniamo ai dilettanti, evidenziando un’altra domanda: come mai (malgrado le evidenze emerse) è così poco utilizzato? In fondo è un programma alla portata di tutti.

    A mio parere, perché non rientra (così come strutturato) nelle esigenze di chi opera a livello dilettantistico. Mi spiego meglio: ultimamente per il riscaldamento si tende a seguire 2 “filosofie”. C’è chi propone ancora la versione “in doppia fila”, semplice da eseguire dai ragazzi anche in autonomia, oppure chi usa la palla con esercitazioni più o meno complesse.

    Indipendente dall’utilità di una o dell’altra modalità citate, il “FIFA 11+” è probabilmente troppo complesso da esser svolto in autonomia dai giocatori, ed allo stesso tempo troppo poco specifico per chi preferisce somministrare protocolli di riscaldamento con la palla. Altro elemento che probabilmente non pende dalla parte di questo approccio è la “monotonia” a cui si può andare incontro effettuando sempre (soprattutto per chi si allena 2-3 volte la settimana) lo stesso riscaldamento.

    Ma se il F-MARC (FIFA Medical and Research Centre) ha introdotto questo programma, e se ha permesso di ottenere una concreta riduzione del rischio di infortuni (Al Attar et al 2019), allora credo sia giusto analizzarlo nel dettaglio, per prendere ciò che di buono questo protocollo può offrire a chi opera nei dilettanti.

    Ma torniamo ai nostri 2 riscaldamenti citati prima (“doppia fila” e “con palla”), per vedere come introdurre eventuali spunti presi dal FIFA 11+.

    Il classico warm-up su 2 file con i giocatori impegnati autonomamente in corsetta, qualche azione tecnica e un po’ di stretching, credo sia ormai una soluzione obsoleta, quindi da abbandonare, se non in alcuni casi sporadici e comunque con indicazioni date da personale qualificato (preparatore atletico).

    Il riscaldamento con palla invece, se effettuato correttamente (con intensità e difficoltà progressiva), permette sicuramente una migliore attivazione tecnico-tattica, ma rischia di trascurare (se non eseguiti nella parte restante dell’allenamento) tutta una parte di lavori fondamentali per la prevenzione degli infortuni e il miglioramento della coordinazione del giocatore.

    Nel video sotto, è possibile vedere un esempio di un semplice movimento preso proprio dal FIFA 11+.

    Questa categoria di movimenti (se effettuati correttamente), permette di sincronizzare la flesso-estensione della catena estensoria, contribuendo a migliorare la coordinazione di questo tipo di azioni; nel caso specifico, aiuta a percepire e stimolare la contrazione lungo l’asse dell’arto inferiore in appoggio, evitando errori in varismo e valgismo. A questo, ne vanno aggiunti altri ed innumerevoli, che coinvolgono altre catene ed altri movimenti, proprio perché il calcio è uno sport in cui la variabilità gestuale è particolarmente ampia.

    Nel nostro articolo dedicato alla rapidità coordinativa, abbiamo visto come l’efficacia dei movimenti del calciatore, dipende da coordinazione, estensibilità e resistenza muscolare locale (vedi immagine sotto).

    Il protocollo FIFA 11+ inserisce nel riscaldamento stimoli orientati allo sviluppo di queste qualità; se non introdotti nel riscaldamento, a mio parere è comunque importante somministrarli in altri momenti dell’allenamento, proprio perché questi stimoli allenanti hanno importanti effetti sull’efficienza dei gesti del calciatore e nei confronti della prevenzione degli infortuni.

    Conclusioni e riscontri applicativi

    Il FIFA 11+ raccoglie all’interno del protocollo una serie di movimenti in grado di riscaldare adeguatamente il calciatore e di avere un effetto preventivo nei confronti degli infortuni, se somministrati in ambito dilettantistico.

    Detto questo, è possibile fare di meglio?

    A mio parere si, ma è necessario comprendere come efficienza dei movimenti del giocatore e prevenzione infortuni siano 2 variabili intimamente legate; di conseguenza,

    coordinazione, estensibilità delle catene e resistenza muscolare locale (soprattutto agli angoli articolari estremi) vanno allenati in maniera adeguata alla categoria ed età di riferimento.

    Prima di riportare alcune fonti utili per approfondire questi argomenti, mi preme sottolineare che se anche se il riscaldamento viene effettuato con la palla, è comunque importante inserire (magari nei momenti di pausa) movimenti/posizioni in grado di detendere la muscolatura e concluderlo con gesti con intensità e difficoltà tali da preparare al meglio il giocatore per la fase successiva.

    Concludo inoltre con una dovuta precisazione: l’incidenza degli infortuni è un fenomeno multifattoriale, e non può essere ricondotto solamente a parametri neuro-muscolari, posturali e coordinativi. Le condizioni di fatica sono le situazioni in cui il giocatore solitamente si infortuna più spesso; di conseguenza, anche la forma fisica riveste un ruolo cruciale in questi contesti, come la capacità di saper dosare adeguatamente carico e recupero nel processo d’allenamento a breve-lungo termine.

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    preparazione atletica dilettanti

    Autore dell’articolo: Melli Luca, preparatore atletico AC Sorbolo, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 ed Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto. Email: melsh76@libero.it

  10. Lo stretching nel calcio: “statico” o “dinamico”? Utile o dannoso?

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    Le tecniche di stretching per migliorare la flessibilità del calciatore si sono evolute nel corso degli anni.

    La tecnica di allungamento più datata è denominata stretching balistico e si basa sull’effettuazione di movimenti rapidi con molleggio.

    Un’altra tecnica, conosciuta come stretching statico, prevede l’allungamento di un muscolo fino al punto in cui si avverte un certo fastidio e il man
    tenimento di tale posizione per un periodo di tempo prolungato; tale metodica è stata utilizzata per molti anni.

    Più di recente è stato introdotto un altro gruppo di tecniche di allungamento a cui è stato dato il nome di tecniche di facilitazione neuromuscolare propriocettiva (PNF), consistenti nell’alternare fasi di contrazione a fasi di rilassamento.

    I ricercatori hanno dibattuto a lungo su quale di queste tecniche fosse la più efficace nel migliorare la mobilità, ma non esiste ancora un chiaro consenso comune.

    Gli esercizi di allungamento devono essere eseguiti non soltanto al termine dell’allenamento e della partita, ma anche verso la
    fine del riscaldamento, negli intervalli tra una serie di esercitazioni e l’altra o dopo una sostituzione.
    Queste procedure hanno lo scopo:

    • di facilitare i processi di recupero del tendine;
    • di migliorare, con l’aiuto delle esercitazioni di sensibilizzazione neuro-muscolare, la capacità delle componenti elastiche contrattili del muscolo di trasformare parte dell’energia cinetica di caduta in energia potenziale elastica, riducendo così le tensioni che agiscono sui tendini e sulle zone di inserzione. L’energia potenziale elastica viene poi nuovamente trasformata in energia cinetica al momento della fase di spinta verso l’alto.

    La flessibilità è definita come la massima escursione articolare possibile da parte di una singola articolazione o di una serie di articolazioni. Il mantenimento di un ampio intervallo di mobilità articolare è considerato da tempo una componente essenziale dell’efficienza fisica del calciatore, ed è importante non solo per una buona prestazione atletica, ma anche e soprattutto per prevenire gli infortuni.

    L’obiettivo di ogni programma volto ad incrementare la flessibilità deve essere quello di migliorare l’ampiezza del movimento di ogni singola articolazione, variando l’estensibilità dell’unità muscolo-tendinea, responsabile dello specifico movimento articolare. È ben documentato che gli esercizi in grado di allungare le unità muscolo-tendinee determinano un incremento della massima escursione possibile dell’articolazione coinvolta.

    In un recente sondaggio promosso nel più famoso dei Social Network in cui MisterManager.it annovera una cerchia di amicizie considerevole tra Preparatori Atletici e Allenatori di calcio ho voluto lanciare un sasso:

    “Stretching nel calcio: utile o dannoso? Dinamico o statico? Che ne pensate, quale utilizzate?”

    Beh, le risposte sono state diverse e come si prevedeva diverse sono anche le correnti di pensiero.

    C’è chi adotta tutte e due le tecniche di stretching a seconda della fase di allenamento e chi ha risposto (pur senza dare una spiegazione), che assolutamente adotta lo stretching dinamico.

    Dannoso fatto prima, durante o dopo l’allenamento. Lo stretching è una disciplina, come tale va fatto con regolerità almeno 5 giorni la settimana, lontano dalle sedute di allenamento e seguendo tutte le prescrizioni (luogo, clima, correttezza nelle esercitazioni, etc.) Per chi voglia approfondire sul sito www.allenarebene.it trovate un saggio sulla materia del Prof. Rovida. Questo il parere di Massimiliano Sorgato che poi aggiungerà: ” Come dice il prof. Rovida per fortuna che nel 99% dei casi è fatto talmente male da non far assolutamente nulla, né bene né male. Io non faccio il preparatore, ma ho avuto la fortuna di incontrare preparatori che vivono questo tempo e si adattano alla scoperte della scienza. Un mister, quando ha un preparatore, dovrebbe ascoltarlo invece che dirgli lui cosa fare! Ormai il calcio è rimasto l’unico sport dove a livello professionistico si veda fare dello stretching prima di una gara. Basta aprire un po’ gli orizzonti nell’ultimo mondiale di atletica (dove la prestazione fisica è al top) non solo non si è visto un atleta farlo, ma il “riscaldamento” è ridotto praticamente a nulla che non sia semplicemente una rivisitazione dei gesti che si andranno a compiere…bah…prima o poi ci arriveremo anche noi”.

    Sulla stessa linea d’onda è anche il Prof. Manuele Margheri che replica: ” Completamente d’accordo con Massimiliano… poi, come sempre del resto, dobbiamo anche adattarci alle volontà del mister che, utilizzando il classico esercizio di allungamento per parlare alla squadra, vuole da noi che lo stretching sia inserito nella seduta… allora che si fa?…qualcosa che non danneggi le prestazioni dei nostri atleti e che dia comunque loro la sensazione di aver fatto qualcosa di “utile” (dobbiamo essere anche psicologi! E in alcuni casi psichiatri!!!).

    E ancora il Prof. Manuele Margheri (partner di MisterManager.it con il suo www.ilpreparatoreatletico.it): ” Chapeu!!! purtroppo nel calcio (in Italia), viviamo ancora di ricordi e ciò che si è fatto per tanti anni va bene ma se provi a portare delle novità devi fare una fatica immensa per farle accettare! Comunque spero veramente (ma ho i miei dubbi), che presto ci adegueremo al resto degli sport…e per fare questo c’è bisogno di tutti, a partire da noi preparatori che dovremmo avere più forza nel portare avanti le nostre idee…”

    Dal canto suo il Prof. Antonello Di Gregorio, anch’egli Preparatore Atletico: ” Lo stretching statico l’ho ridotto al minimo indispensabile per far sì che per i giocatori ci sia quella parvenza di riscaldamento “classico”. Questo è più per una loro questione mentale anche se gli viene detto che quello dinamico è molto più utile ai fini del calcio…. Il dinamico lo uso molto perchè è molto più efficace e gli studi eseguiti in merito lo dimostrano”.

    E con lui è molto d’accordo “Leo Messi: ” Sei l’unico che ha capito qualcosa… E’ piu’ un discorso psicologico che hanno bisogno i giocatori che altro… Puo’ essere anche un ritorno alla calma dopo una seduta di allenamento, prima di rientrare nello spogliatoio!!!”.

    Il punto è far cultura…soprattutto per chi lavora con i giovani, perché non ci si ritrovi ancora tra 10 anni con abitudini che, invece, dovrebbero essere morte e sepolti da decenni! Che poi nel 99% dei casi sia fatto talmente male da non produrre alcun risultato, né utile né dannoso è un altro discorso. Per calmarsi alla fine dell’allenamento (poi perché a fine allenamento uno dovrebbe essere nervoso?), si possono trovare nuove strade non dannose…” Gli replica Massimiliano Sorgato.

    Ma “Leo Messi” replicherà non senza toni polemici: ” …A fine allenamento non si è nervosi!!!….Parlo di ritorno alla calma per il corpo dopo sforzi fisici sostenuti nella seduta!!!…Poi non si sta’ parlando di bambini spero, ma di atleti evoluti. Quindi cerchiamo di non andare troppo avanti se non si conosce il ”ritorno alla calma” dopo una seduta di allenamento!!!!”

    Il dibattito sicuramente proseguirà sul Social Network e quest’articolo verrà correntemente aggiornato, ma potete liberamente lasciare commenti qui sotto, nell’apposito form al fine di poter portare vostri pareri e opinioni sulla materiache si presenta interessante e ricca di sfaccettature.

  11. Il riscaldamento nel gioco del calcio e FIFA 11+

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    “Un altro interessante articolo redatto da Angelo Iannaccone che ha portato i principi del riscaldamento e presentato la nuova messa in azione studiata dalla FIFA, il famoso 11+”

    Il riscaldamento rappresenta la fase iniziale della seduta di allenamento. Questa fase è stata spesso trascurata dagli allenatori per dare spazio ad altre componenti (specie di natura tecnico-tattica); invece rappresenta un momento molto delicato della seduta, che se ben impostato ed utilizzato, oltre agli effetti fisiologici che andremo ad analizzare, può esserci utile sia dal punto di vista condizionale, coordinativo e addirittura preventivo.

    I principali effetti del riscaldamento


    Aumento della temperatura corporea (questo riduce gli attriti articolari e facilita le reazioni biochimiche all’interno del muscolo);

    Una migliore coordinazione muscolo – articolare;

    Una predisposizione del fisico ai carichi di lavoro successivi;

    Altri possibili effetti del riscaldamento

    Il riscaldamento oltre a procurare gli importantissimi effetti fisiologici sopra citati può essere utile anche per allenare e/o richiamare altre componenti. Principalmente quelle:

    • Condizionali: piccole esercitazioni di forza, resistenza, velocità e mobilità articolare (sia negli esercizi di tipo generale che specifico) possono mantenere alto il livello allenante delle varie capacità condizionali; questo passaggio risulta fondamentale nei dilettanti dove il numero di sedute di allenamento è limitato (di solito due sedute settimanali);
    • Coordinative: all’interno della fase di riscaldamento possono essere inseriti esercizi ed esercitazioni di tipo coordinativo a corpo libero o con piccoli attrezzi (che analizzeremo in seguito); questo passaggio è fondamentale nei settori giovanili dove la componente coordinativa deve essere sempre richiamata per la crescita ottimale del giovane calciatore;
    • Preventive: effettuare un ottimo riscaldamento significa anche prevenire il calciatore da eventuali infortuni e/o complicazioni, sia nella seduta che dovrà effettuare, sia nel corso della stagione calcistica; spesso si adoperano metodi e contenuti di allenamento preventivo molto dispendiosi (sia in termini economici che temporali), quando con l’introduzione di semplici esercizi ed esercitazioni a corpo libero (contrazioni eccentiche, isometriche, pliometriche, range articolari funzionali al modello prestativo) spesso possono prevenire l’insorgenza di infortuni.

    Varie tipologie di riscaldamento

    Un altro errore che si commette spesso, è quello di “generalizzare” la fase di riscaldamento. Nei settori giovanili e nei dilettanti spesso si effettua la solita seduta “standard” per tutta la stagione calcistica, al di là del lavoro fisico e o tecnico/tattico che si dovrà affrontare successivamente. Questo è un errore perché oltre a rendere psicologicamente “pesante” ai calciatori questa fase (fattore assolutamente da non sottovalutare), potrebbe non predisporre l’organismo del calciatore allo sforzo successivo, cosa che porterebbe a conseguenze negative (maggiore predisposizione agli infortuni, basso rendimento nella fase successiva).

    Risulta quindi necessario distinguere la fase di riscaldamento, in base a:

    • Seduta con obiettivo metabolico;
    • Seduta con obiettivo neurogeno;
    • Seduta con obiettivo tecnico-tattico;
    • Riscaldamento pre-partita.
    • Riscaldamento metabolico

    Prima di una seduta di capacità o potenza aerobica è fondamentale predisporre l’organismo ad un successivo impegno metabolico. Quindi è necessario introdurre esercizi o esercitazioni che innalzino la temperatura interna, aumentino la frequenza cardiaca e respiratoria. Inoltre l’allenamento di resistenza può essere associato a quello di mobilità articolare (sia di tipo statico che dinamico), ed è un’ottima occasione per richiamare quest’ultima capacità, la quale con po’ di creatività può essere “miscelata” anche con un’ottima componente coordinativa. Gli esercizi di mobilizzazione dinamica possono essere proposti (gradatamente) anche con componenti di disequilibrio e di core-stability.

    Esempio di seduta con obiettivo metabolico

    • Corsa lenta o tecnica calcistica (entrambe le esercitazioni devono essere sottomassimali in modo da predisporre l’organismo gradatamente allo sforzo);
    • Stretching per gli arti inferiori (quadricpiti, ischio – crurali, tricipite della sura, adduttori);
    • Mobilizzazione dinamica per tronco (con nastro metrico o a corpo libero) e/o articolazione coxo-femorale (corpo libero, nastro metrico, ostacoli di altezza variabile);
    • Allunghi sui 40-60 metri.
    • Riscaldamento neurogeno

    Prima di una seduta di forza esplosiva/esplosivo-elastica o rapidità è fondamentale predisporre l’organismo (specie del punto di vista neuro-muscolare) ad un successivo impegno di tipo esplosivo.

    L’attivazione organica va ridotta ai minimi termini (pochissimi minuti di corsa o di lavoro sottomassimale con la palla) per dare spazio ad esercitazioni propedeutiche alla forza/rapidità. Anche in questo caso è importante combinare lavori di froza propedeutici abbinati ad una componente coordinativa. Evitare, invece l’allungamento statico (o ridurlo ai minimi termini). Studi condotti (anche se su velocisti e saltatori che hanno caratteristiche morfo-funzionali diverse da quelle dei calciatori) hanno evidenziato che un’impegnativa seduta di stretching prima di una prestazione o allenamento intenso può portare ad un fenomeno di affaticamento muscolare con relativo decadimento della prestazione. Anche la durata non deve essere eccesivamente lunga (non più di 10 – 15 minuti) in modo da mantenere quella freschezza ed efficienza neuro-muscolare che sarà fondamentale nei carichi di lavoro successivi. Le varie andature propedeutiche (balzi, sprint, scavalcamenti) possono essere proposti (gradatamente) anche con componenti di disequilibrio e di core-stability.

    Esempio di riscaldamento con obiettivo neurogeno

    • 2-3’ di corsa lenta o di lavoro con palla;
    • Balzi con ostacoli;
    • Balzi con cerchi;
    • Scavalcamento over o speed ladder;
    • Andature a secco: sprint, sprint con arresto, sprint con cambi di direzione.
    • Riscaldamento tecnico-tattico

    Spesso può capitare (sia nei professionisti che nei dilettanti) di effettuare una seduta di allenamento esclusivamente tecnico – tattica partendo già dal riscaldamento. Questo non significa che la parte fisica deve essere completamente esclusa. Ma è compito dell’allenatore o del preparatore quantificare il carico di lavoro tecnico – tattico (essendo riscaldamento, il lavoro iniziale è sempre sotto massimale) in modo da ottenere comunque gli stessi effetti fisiologici, ma integrati al lavoro con palla. Esso tra l’altro può essere inframezzato, durante le fasi di recupero, con esercizi o esercitazioni di mobilità articolare attiva e passiva.

    Gli esercizi di mobilizzazione dinamica possono essere proposti (gradatamente) anche con componenti di disequilibrio e di core-stability.

    Esempio si riscaldamento con obiettivo tecnico – tattico

    • Tecnica /tattica calcistica;
    • Mobilizzazione statica e/o dinamica tronco;
    • Tecnica/tattica calcistica;
    • Mobilizzazione statica e/o dinamica arti inferiori;
    • Tecnica/tattica calcistica;
    • Mobilizzazione statica e/o dinamica tibio-tarsica;
    • Allunghi sui 30-50 metri a secco o con palla.
    • Riscaldamento pre-partita

    Il riscaldamento pre-partita risulta un “mix” di tutti i riscaldamenti precedenti, visto e considerato che in partita vi sono componenti sia di tipo metabolico, sia neurogeno, sia tecnico/tattico. Dunque risulta fondamentale equilibrare le varie capacità condizionali in virtù del momento più importante: la partita. Esso può essere effettuato sia a “secco” che con palla. E’ consigliabile non superare i 20’ di attivazione e alla fine concedere sempre qualche minuto (2-3’) ai calciatori per esercizi personali (delle volte anche scaramantici) da svolgere singolarmente.

    Esempio di riscaldamento pre-partita

    • 2’-3’ corsa lenta
    • 2’ di possesso palla con mani in un rettangolo 30×20 mt (5vs5)
    • 1’ stretching quadricipiti;
    • 2’ possesso palla gambe – piedi;
    • 1’ stretching ischio – crurali;
    • 2’ possesso palla piedi;
    • 1’ stretching tricipite della sura;
    • 4’ mobilizzazione dinamica tronco (rotazioni, circonduzioni, flesso-estensioni) + arti inferiori intra extra rotazioni anca, slanci anca ecc);
    • 4’ sprint (lineari, a navetta, con cambio di senso),
    • 3’ di liberi esercizi o in alternativa 2 allunghi sui 50 mt con 30” di recupero tra l’uno e l’altro.

    Una proposta alternativa di riscaldamento: “The 11+” FIFA

    La FIFA insieme alla F-MARC ha sviluppato su basi scientifiche un protocollo di ricondizionamento e di riscaldamento per la prevenzione degli infortuni.

    Il programma di prevenzione include interventi generali quali il miglioramento delle fasi di riscaldamento e di defaticamento, il bendaggio per instabilità di caviglia, e la promozione di un adeguato atteggiamento di fair play come lo specifico “F-MARC11″. Il programma di prevenzione “The 11+″ è stato sviluppato per migliorare la stabilità di caviglia e ginocchio, la flessibilità e la forza del tronco, delle anche, degli arti inferiori e il miglioramento della coordinazione, della velocità e della resistenza.

    Sul sito ufficiale: http://f-marc.com/11plus/index.html è possibile scaricare le dimostrazioni video, il poster e le schede di ogni singolo esercizio.

    Si tratta, molto brevemente, di un sistema di riscaldamento di tipo preventivo con 11 esercizi (ultimamente portato a 13 esercizi) diviso a sua volta in 3 parti:

    • Una prima parte con 6 esercizi a carattere metabolico ma con una buona componente di mobilizzazione dinamica e coordinativa;
    • Una seconda parte con 5 esercizi di forza, piccola pliometria e core-stability, anche questi con un’ottima componente coordinativa;
    • Una terza ed ultima parte con 2 esercizi di nuovo a carattere metabolico ma ad un’intensità più alta.

    Il riscaldamento (nel momento in cui si è appresa la corretta esecuzione da proporre gradualmente) ha una durata di circa 20’ e vi sono 3 livelli crescenti e graduali di difficoltà.

    Secondo studi FIFA su gruppi studio di calciatori, chi ha effettuato questo tipo di riscaldamento ha ridotto l’insorgenza di infortuni (non dovuta a situazioni traumatiche di gioco) di circa il 40%.

    Gli esercizi proposti, sono correlati con i movimenti, le contrazioni muscolari e gli angoli di lavoro funzionali al gioco del calcio e permettono un adattamento specifico ai carichi di lavoro successivo.

    Questa valida forma di riscaldamento è un’ottima alternativa ai vari tipi di riscaldamento sopracitati, ma è necessario:

    • Fare in modo che i calciatori apprendano ed eseguano gli esercizi in maniera corretta;
    • Personalizzarlo a seconda della seduta di allenamento;
    • Variare gli esercizi (ma non l’obiettivo fisiologico).

    Questa proposta di riscaldamento, in base alla mia esperienza, è proponibile e ben “metabolizzata” dai calciatori, ma comunque è necessario un lungo periodo di addestramento, proponendo gli esercizi compresi a tappe.

    Riscaldamento e temperatura esterna

    Un fattore che influisce sul riscaldamento è chiaramente la temperatura esterna, la quale può chiaramente influenzare i suoi effetti fisiologici.

    Temperature troppo elevate (specie durante la preparazione pre-campionato) possono condizionare il riscaldamento e la fase successiva con spiacevoli inconvenienti (crampi, disidratazione, nausea ecc).

    In caso di temperatura elevata è necessario:

    • Diminuire leggermente il minutaggio totale della fase di riscaldamento;
    • Evitare troppi minuti di corsa lenta o lavoro metabolico;
    • Idratarsi durante e dopo lo svolgimento del riscaldamento.

    Temperature troppo rigide, condizionano anche esse la fase di riscaldamento e quella successiva, ma con altre possibili conseguenze (accorciamenti muscolo-tendinei,stiramenti e strappi muscolari, distrazioni articolari ecc.).

    In caso di temperature rigide è consigliato:

    • Rispettare il minutaggio della fase di riscaldamento;
    • Inserire qualche minuto in più di corsa lenta o lavoro metabolico;
    • Inserire più esercizi di mobilizzazione dinamica a scapito di quella statica;
    • Evitare l’eccesso di eventuali esercizi statici e/o tempi morti;
    • Utilizzare un abbigliamento consono alla temperatura invernale.

    Di Angelo Iannacone

    Articolo tratto da

    [skype-status]

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