Vi racconto una storia (vera)! Nel 2016 Eliud Kipchoge vinse le Olimpiadi correndo con ai piedi un prototipo di quelle che poi nel 2017 vennero commercializzate come Nike Vaporfly4%; il 4% non è altro che il miglioramento del rendimento di corsa dichiarato che, secondo la casa produttrice, consentirebbe di ottenere rispetto ad un qualsiasi altro paio di calzature da running.
Queste scarpe infatti, sono dotate di uno spessore di intersuola superiore alla norma (Heel height di 40mm), formate da una schiuma brevettata (ZoomX) con all’interno una piastra rigida in carbonio. Non fu la prima (e non sarà neanche l’ultima) scarpa in commercio uscita con questi proclami; non a caso, gli addetti ai lavori non ci fecero caso più di tanto, ipotizzando come quel 4% fosse eccessivamente sovrastimato. Ma stavolta le cose andarono in maniera diversa.
Infatti, il 16 Settembre 2018, Eliud Kipchoge stabilì il record del mondo in maratonaa Berlino in 2h01’39”, indossando le Vaporfly.
Nell’Ottobre 2019 Brigid Kosgei fece il record del mondo femminie della maratona in 2h14’04” con ai piedi le Vaporfly.
Dal 2017 al 2019 tutte le maratone major (cioè le più importanti al mondo) videro sul podio per la maggior parte atleti che indossavano le Vaporfly.
Nel 2018 il New York Times pubblicò uno studio (grazie a i dati forniti dalla piattaforma di Strava) in cui evidenziò come i maratoneti amatori passati alle Vaporfly, abbiano (in media) ottenuto dei miglioramenti delle loro prestazioni intorno al 4% sui 42.195 Km; ovviamente è solo uno studio “osservazionale” e non uno studio “controllo randomizzato”, quindi valido solo ai fini “esplorativi”, ma non in grado di dare conferme definitive. Sempre in questi anni vennero eseguite anche ricerche scientifiche che confrontarono le Vaporfly con le più utilizzate scarpe da gara da parte degli atleti d’elitè. Più precisamente:
Nel 2018, Hoogkamer et al videro come l’evoluzione della Vaporfly 4% (probabilmente si riferiscono alle Vaporfly next%) era in grado di migliorare l’economia di corsa del 4%, sia rispetto alle scarpe precedentemente utilizzate per fare il record del mondo (Adidas Adizero Adios BOOST 2), sia rispetto alle Nike Zoom Streak 6 (le maggiormente utilizzate dai runner elitè sponsorizzati dalla Nike).
Nel 2019, lo stesso autore concluse che questo miglioramento era ottenuto grazie a 3 fattori: il primo era dovuto alla componente della schiuma dell’intersuola, il secondo grazie “all’effetto leva” della placca in carbonio inserita a metà dell’intersuola e il terzo alla trasmissione elastica della placca stessa sull’articolazione della caviglia.
Nel 2019, Barnes et al videro come le Vaporfly migliorarono l’economia di corsa (runner molto allenati) del 2.9% rispetto a delle scarpe da pista (Nike Zoom Matumbo 3) e del 4.2% rispetto alle Adidas Adizero Adios 3 (da strada).
Nel 2019 Hunter et al confermarono ulteriormente la superiorità (in termini di economia di corsa) delle Vaporfly4% rispetto alle Adidas Adios Boost e Nike Zoom Streak, rispettivamente del 2.8% and 1.9%.
Tutto questo ha portato rafforzato sempre di più l’idea che le Vaporfly diano veramente qualcosa in più delle altre scarpe da running nelle condizioni in cui sono state utilizzate dagli atleti d’elitè. Ma non finisce qui.
Il 12 ottobre 2019 Eliud Kipchoge corre per la prima volta una maratona sotto le 2 ore (1h59’40”, primato comunque non omologabile per le condizioni in cui è stato corso); con che scarpe ha corso secondo voi?
Non ha usato le Vaporfly, ma le Alphaply Prototype, un prototipo (sempre della Nike) con un’altezza di 51mm sul tallone (11mm in più delle Vaporfly) e 41 mm sull’avampiede; queste erano dotate di una tecnologia che non sfruttava solamente i principi strutturali delle Vaporfly, ma altre innovazioni non rivelate (ovviamente) dalla casa produttrice.
A questo punto era ormai più che evidente che i tempi e le prestazioni degli atleti d’elitè in maratona, erano influenzati dalle calzature a tal punto da modificare i valori espressi dalle potenzialità e dalle caratteristiche degli atleti.
Infatti, all’inizio del 2020 la IAAF emana un documento in cui viene regolamentato l’utilizzo delle calzature da running in gara, per “preservare l’integrità della competizione d’élite assicurandoci che le scarpe indossate dagli atleti d’élite in gara non offrano assistenza ingiusta o vantaggio”. Sintetizzando, dal 30 Aprile 2020 sono vietate in gare su strada:
Tutti i prototipi: una scarpa, per essere indossata in gara, dovrà trovarsi in commercio da almeno 4 mesi.
L’altezza a livello del tallone (Heel height) non potrà superare i 40 mm.
Non dovrà avere più di una piastra rigida nell’intersuola.
Malgrado questo potesse sembrare un giusto “giro di vite” per evitare che le scarpe da running diventino qualcosa di più simile a dei “trampoli” piuttosto che a delle calzature vere e proprie, alla fine risultò un “colpo al cerchio e un colpo alla botte”. Ora vi spiego il motivo.
Con questi nuovi parametri vengono definitivamente bannate le Alpha Prototype (quelle usate solamente per il record sotto le 2 ore), ma non le Vaporfly (quelle indossate in tutte le altre gare). Questo, probabilmente perché nel 2020 si sarebbero dovute disputare le olimpiadi (poi rinviate) e la maggior parte degli atleti fecero il tempo di qualificazione con le Vaporfly; bannando queste calzature, si sarebbe dato un vantaggio enorme a chi, fino a quel momento ,avrebbe avuto l’opportunità di usarle. In questo modo si è dato a tutti la possibilità di usare queste scarpe per qualificarsi alle Olimpiadi.
Ma i parametri utilizzati dalla IAAF, sono veramente adeguati per garantire una situazione di “equità tecnologia in futuro” tra gli atleti d’elitè al fine di consentire di vincere a chi veramente se lo merita? Secondo Ross Tucker (uno dei maggiori esperti di fisiologia del running al mondo) no, e vi riporto sotto il motivo.
Nel suo interessante articolo (Tecnologia delle scarpe da corsa: i vestiti dell’Imperatore e i problemi per l’integrità della corsa) indica come il 3-4% sull’economia di corsa (trovato nelle ricerche scientifiche citate con le Vaporfly) possa incidere il 2-2.5% sul tempo finale di una maratona; per atleti d’elitè tale differenza è di 3-4’ sul tempo totale di una maratona, cioè un’eternità, considerando che i migliori maratoneti al mondo si giocano medaglie e montepremi in molto meno (nell’ultimo mondiale, il 4° classificato arrivò a soli 17” dall’oro).
Provate ad immaginare gli ultimi Km della New York Marathon, con i saliscendi in Central Park, dove solitamente gli atleti fanno la differenza, giocandosi a volte per poche decine di secondi i primi 3 posti sul podio. La vedreste con lo stesso interesse se ci fosse il dubbio (o forse la certezza) che potesse essere il tipo di calzatura a fare la differenza in quel momento, piuttosto che il talento, l’impegno in allenamento o il temperamento dell’atleta stesso?
Che ne sarebbe della credibilità dello sport che più di altri è alla portata di tutti? Ricordatevi che stiamo parlando di una disciplina che si contraddistingue dalle altre per il fatto che sono riusciti ad emergere atleti provenienti da alcune delle zone più povere del mondo, malgrado l’assenza di attrezzature e competenze tecniche di particolare rilievo.
Con questo non si vuole dare la colpa alla Nike di aver inventato una scarpa in grado di abbattere la concorrenza per almeno 3 anni; probabilmente già gli altri marchi nel 2019 hanno messo a disposizione dei loro atleti dei prototipi con caratteristiche similari che poi nei prossimi anni saranno commercializzati.
Il fatto è un altro, ed è puramente tecnico: 40mm di spessore di limite (l’attuale limite imposto dalla IAAF) sono un’infinità, nel quale ogni casa costruttrice può giocarsi fin troppo la tecnologia a vantaggio del proprio atleta. In questi anni il beneficio l’hanno avuto gli atleti sponsorizzati dalla Nike, ma nel futuro potrebbero averlo quelli dell’Adidas, o quelle dell’ASICS; le stesse Vaporfly, indossati da atleti diversi possono dare miglioramenti differenti (dallo 0 al 6%…il 4% solo la media). Allora vogliamo che, tra gli atleti d’elitè, vinca chi ha la fortuna di avere “le scarpe giuste” e “il miglior adattamento alla calzatura”?
I risultati sportivi devono avere un significato; in altri sport come la F1, è diverso, ma perché sempre stato così. La ricerca dell’equipaggiamento ideale per il proprio atleta è un diritto delle case produttrici (e fa parte dell’innovazione), ma le federazioni (in questo caso la IAAF) dovrebbero mettere dei paletti più severi, affinchè possa esserci la certezza (o per lo meno provarci) che le differenze dovute alla tecnologia non siano superiori alle differenza tra atleta ed atleta.
Lo stesso Ross Tucker indica come 20mm possa essere il miglior compromesso come limite massimo dell’intersuola (Heel Heigth); non a caso, fino all’avvento delle Vaporfly, era lo spessore medio delle scarpe usate dagli atleti d’elitè. Speriamo che prima o poi la IAAF effettui le scelte migliori per non far scendere la credibilità che ha permesso a questo sport di essere così popolare.
Ma secondo voi, quale deve essere la mission di una casa produttrice di scarpe da running? Con che criteri dovrebbero essere costruite le calzature per correre?
Dico la mia opinione: a mio parere le scarpe dovrebbero aiutare a correre in maniera più naturale, minimizzare il rischio di infortuni e durare tanto…oltre a costare poco! Solo in questo modo i grandi marchi potranno andare incontro alle vere necessità dei runner e creare delle community di utenti affezionati al proprio brand.
Ma quali caratteristiche tecniche deve avere una calzatura da running per andare incontro a queste esigenze?
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Autore dell’articolo: Luca Melli (melsh76@libero.it), Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto,istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 e preparatore atletico AC Sorbolo.
Il concetto Vasodilatazione è il principale collegamento che unisce il succo di barbabietola con la performance di resistenza e la salute; infatti i nitrati inorganici presenti nel succo di barbabietola sono in grado di incrementare la concentrazione degli stessi nel sangue e di aumentare la produzione di ossido nitrico (NO). Quest’ultimo è un potente vasodilatatore in grado di incrementare il flusso sanguigno nei vasi e favorire lo scambio di sostanze tra sangue e cellule (tra le quali, quelle muscolari). Ma tutto questo è in grado di migliorare realmente la performance? Ha effetti benefici anche nei confronti della salute? Quali sono eventualmente i dosaggi ideali? Esistono alternative a questo alimento? In questo post, attenendoci a quello che emerge dalla bibliografia internazionale, analizzeremo quali sono le reali potenzialità del succo di barbabietole e tutti i possibili risvolti applicativi nel campo della performance e della salute.
*ATTENZIONE: le informazioni contenute sul nostro blog sono esclusivamente a scopo informativo, e in nessun caso possono costituire o sostituire parere e prescrizione medica e specialistica. Si raccomanda di chiedere sempre il parere del proprio medico curante e/o di specialisti prima di modificare il proprio regime alimentare e di integrazione!
Vasodilatazione e Vascolarizzazione: perchè è importante comprendere entrambe
L’irrorazione del sangue ai tessuti è data da 2 fenomeni, cioè la vasodilatazione e la vascolarizzazione; spieghiamo subito in maniera chiara la semplice differenza di questi 2 fenomeni.
La vascolarizzazione non è altro che la presenza di vasi sanguigni all’interno dei vari tessuti (solitamente si misura in densità di vasi per sezione di tessuto); permette l’apporto di sostanze nutritive e lo smaltimento delle scorie dei metabolismi. L’attività fisica è in grado di incrementare la vascolarizzazione muscolare; questo rappresenta un adattamento estremamente stabile, cioè sono necessari mesi e mesi di allenamenti affinchè si possano avere delle modificazioni significative, ma allo stesso tempo è necessario diverso tempo di deallenamento (cioè senza pratica sportiva) affinchè questo fenomeno regredisca.
In aggiunta a questo, il diametro dei vari vasi incrementa durante l’attività sportiva (vasodilatazione), grazie al rilascio della muscolatura liscia di cui sono costituiti; questo avviene a seconda del grado di coinvolgimento del muscolo nel movimento, dall’intensità, dal tipo di contrazione muscolare, ecc. Come potete vedere dalla pagina di Wikipedia, è un meccanismo molto complesso che coinvolge tutti gli organi e tessuti; infatti, durante l’attività sportiva l’organismo regola il flusso sanguigno (tramite meccanismi di vasodilatazione e vasocostrizione) al fine di mandarne la quantità maggiore nel cuore, nel cervello e nei muscoli che lavorano.
Il lavoro fisico è lo stimo principale attraverso il quale si attivano fenomeni sistemici (azione di ormoni e sistema nervoso centrale), locali (indotti dal metabolismo dei muscoli e delle cellule dei vasi) e meccanici (contrazione muscolare ed incremento del flusso ematico) che inducono vasodilatazione.
Per fare un esempio molto chiaro di questi 2 fenomeni, possiamo considerare la vascolarizzazione come l’insieme di strade di una determinata zona, mentre la vasodilatazione la capacità di aumentare il N° di corsie di ogni strada. Ne consegue che il numero di auto che possono transitare all’interno di quella zona dipende stabilmente dal numero di strade, ma allo stesso tempo può essere incrementata grazie all’aumento di corsie per ogni strada.
Perché i nitrati da fonti vegetali migliorano la vasodilatazione, mentre gli integratori a base di Arginina sono inutili
La circonferenza dei vasi principali è definita dagli endoteli e dalla muscolatura liscia vasale; nei capillari invece la circonferenza è definita esclusivamente dagli endoteli.
L’ossido nitrico (sigla NO) è un importante vasodilatatore, che rientra nella categoria dei fenomeni locali che vanno ad ampliare (sottosforzo e a riposo) il diametro dei vasi tramite il rilasciamento della muscolatura liscia vasale (vedi immagine sopra); è prodotto all’interno dell’endotelio ed in parte nel sangue e nei globuli rossi.
Malgrado sia una molecola estremamente potente, l’ossido nitrico ha vita particolarmente breve, infatti dopo pochi secondi viene trasformato in nitrato o nitriti; questi ultimi entrano in un ricircolo (ulteriormente alimentato dalle fonti vegetali di nitrati) che permette di sfruttare queste molecole all’occorrenza.
Nell’immagine sotto, è possibile vedere una semplificazione del metabolismo dell’ossido nitrico (NO) tratta dalla pubblicazione di Lundberg e coll 2008; le vie metaboliche che portano alla produzione sono 2
La prima origina dall’arginina (freccia N° 1); è stato visto che aumentando le concentrazioni di Arginina con l’integrazione, non incrementa comunque la quantità di NO prodotto, per questo è ragionevole ipotizzare che il fattore limitante di questa via metabolica (in soggetti sani ed adeguatamente alimentati) non sia la quantità di Arginina, ma l’enzima che permette questa reazione.
La seconda origina dai Nitriti presenti nel sangue e negli endoteli; solo i nitriti (che hanno una formula chimica leggermente diversa dai nitrati in quanto hanno un ossigeno in meno) possono diventare ossido nitrico; per questo motivo, i nitrati ingeriti dall’alimentazione vengono trasformati in nitriti dai batteri contenuti nella saliva o da un enzima presente nelle cellule (xantina ossidasi), prima di essere trasformati in NO. Sono diverse le vie metaboliche ed i costituenti cellulari in grado di trasformare i nitriti in NO (polifenoli, catena trasporto elettroni, mioglobina, emoglobina, ecc.; freccia N° 2); è stato dimostrato che incrementando la concentrazione di nitrati/nitriti con l’apporto alimentare, incrementa anche la produzione di NO.
Dall’immagine sopra, è anche possibile notare come esista un riciclo/ricircolo (freccia N° 3) dei nitriti/nitrati all’interno nel nostro corpo, affinchè questi possano essere riutilizzati; a questo link potete vedere un’immagine ancor più approfondita. Una parte dei nitriti/nitrati viene eliminata per via renale (freccia viola), mentre l’apporto alimentare (freccia verde) rappresenta la fonte esterna di queste sostanze.
È ovvio che le reazioni che portano alla formazione di NO (freccia N° 1 e N° 2) sono particolarmente attive sottosforzo. Non solo, soggetti allenati hanno una maggiore capacità di vasodilatazione rispetto a soggetti non allenati (Boutcher e coll 2005); questo è uno dei motivi principali per il quale gli atleti hanno una gittata cardiaca sottosforzo superiore rispetto ai sedentari.
Concludiamo questo paragrafo ribadendo i motivi per i quali la supplementazione con Arginina è inutile per soggetti sani che si alimentano correttamente; l’Arginina non è un amminoacido essenziale per un adulto (perché può essere sintetizzato partendo da glutammina e citrullina), ed un maggiore introito alimentare non causa nessun effetto ergogenico e nessun incremento della sintesi di NO.
Viceversa per i nitriti/nitrati; un aumento dell’apporto di questi (tramite alimenti vegetali, ed in particolar modo il succo di barbabietole) con la dieta è in grado di incrementare la produzione di NO e di conseguenza la vasodilatazione; nei prossimi capitoli potrete leggerne gli effetti sulla salute e sulla performance.
Quali sono gli alimenti più ricchi di nitrati e quali sono i benefici nei confronti della salute
L’approfondimento dei benefici dei nitrati naturalmente presenti negli alimenti vegetali ha avuto un incremento di interesse proprio dall’inizio di questo secolo; infatti, nel 2001 uno dei primi studi longitudinali su un campione molto ampio (Joshipura 2001) giunse alla conclusione che il consumo di frutta e verdura, ed in particolar modo di verdura a foglia verde (ricche di nitrati) e frutti ricchi di vitamina C, avevano un effetto protettivo nei confronti dei problemi cardiovascolari; 16 Anni dopo, la Review (cioè una ricerca che riassume i risultati di tanti altri studi) di Aune e coll 2017, ha ulteriormente confermato che il consumo di frutta e verdura è associato ad un ridotto rischio cardiovascolare, di cancro e permette di vivere più a lungo.
Nel nostro articolo sui Superfood, abbiamo visto come i polifenoli presenti nella frutta/verdura siano tra le sostanze responsabili di questi benefici; un’altra potente risorsa per migliorare la salute sono proprio i nitrati provenienti sempre da fonti vegetali. I diversi studi condotti su questa molecola hanno permesso di comprenderne con estrema chiarezza i dosaggi ideali e gli effetti, in particolar modo quando si parla di succo di barbabietole.
Per fare un esempio, nello studio di Kapil e coll 2015, 250 ml giornalieri (per 2 settimane) di succo di barbabietola (circa 400 mg di nitrati) furono in grado di ridurre di circa 8 mm di Hg la pressione sistolica in soggetti affetti da ipertensione; tale effetto è rilevante, perché oltre i 115/75 mm Hg, l’incremento di 2 mm Hg di sistolica comporta un aumento del 7-10% rispettivamente del tasso di morte da infarto o da ischemia cardiaca; questo è stato verificato per la fascia d’età che va dai 40 ai 69 anni (Lewington e coll 2002).
I vari studi condotti sul succo di barbabietole (vedi review di Bonilla Ocampo e coll 2018) hanno riportato in media una riduzione della pressione sistolica di 8 mm Hg, accompagnati da una riduzione di rischi associati all’apparato vascolare (cardiaci e celebrali); i dosaggi medi di nitrati erano compresi tra i 300-500 mg. I benefici (in termine di riduzione della pressione arteriosa) sono maggiori tanto più il soggetto è in sovrappeso, tanto più è anziano e tanto più ha una pressione elevata; l’efficacia è maggiore negli uomini rispetto alle donne.
Si ipotizza (Stephan e coll 2017) che nel lungo termine, tra gli effetti possa esserci anche il rallentamento del declino cognitivo; per avere conferme, servono ulteriori approfondimenti scientifici. Ma gli effetti del succo di barbabietole non sono solamente dovuti alla presenza di nitrati; infatti, è la presenza di più sostanze (e l’interazione tra le stesse) all’interno delle fonti vegetali a garantire i vantaggi della loro assunzione.
Non a caso, anche l’utilizzo di succo di barbabietole impoverito nitrati è stato visto apportare benefici significativi (in termini di riduzione della pressione sistolica), anche se inferiori rispetto a quello con nitrati (Bahadoran e coll 2017); probabilmente è la presenza di betalaina e di altre molecole ad azione antiossidante a potenziare gli effetti sinergici in questo alimento.
Come accennato sopra, i nitrati non sono solamente presenti nel succo di barbabietola; infatti si trovano naturalmente anche negli altri vegetali, in particolar modo nelle verdure a foglia verde. Nell’immagine sotto, è possibile vedere la quantità di nitrati presenti in alcuni vegetali.
È comunque da specificare, che la loro concentrazione può cambiare sensibilmente a seconda di alcune variabili relative all’ambiente rurale nel quale crescono come l’umidità, la temperatura, l’esposizione al sole (Lidder e coll 2012); inoltre l’impiego di fertilizzanti ed erbicidi può non solo modificare la quantità di nitrati presenti, ma anche lasciare nel prodotto sostanze dannose per la salute. In fondo a quest’articolo vi elencheremo dove trovare frutta e verdura senza rischio di sostanze dannose per la salute.
Per questo motivo, è difficile fare un calcolo preciso della quantità di nitrati che si ingeriscono giornalmente; seguire la regola di assumere 5 porzioni giornaliere di frutta/verdura di stagione, rimane la norma principale per fornire al proprio organismo le fonti benefiche vegetali (nitrati, polifenoli, fibre, pigmenti, ecc.) per la salute. Per chi ha un certo rischio cardiovascolare, è consigliabile (se non si hanno controindicazioni) che di queste, almeno 3 siano di verdura (Blekkenhorst e coll 2018) ed almeno una di verdure crucifere (Blekkenhorst e coll 2017).
Il succo di barbabietole può essere considerato come una di queste fonti; l’assunzione continua di questo alimento è in grado di offrire importanti benefici ai soggetti con rischio vascolare (ipertensione), ma è sempre bene concertare insieme al proprio medico (o specialista) l’inserimento di questo prodotto all’interno della propria dieta, in particolar modo se si prendono medicinali.
Per i motivi elencati sopra, il succo di barbabietole si può definire a tutti gli effetti un Superfood!
Non solo, il succo di barbabietole è da considerare anche un ottimo alimento per gli sportivi; nel prossimo capitolo scoprirete il perché.
Quali effetti sulla performance?
Tra le diverse funzioni dell’ossido nitrico (NO), c’è anche la regolazione di diverse funzioni cellulari, alcune delle quali legate alla produzione di energia; sommando queste attività a quella vasodilatatoria, è possibile ipotizzare che il succo di barbabietole possa migliorare la performance? Leggendo questo capitolo, avrete la risposta!
Se sugli effetti sulla pressione arteriosa sistolica e diastolica si hanno le maggiori certezze (anche in relazione ai diversi dosaggi), attualmente si hanno ancora delle perplessità sull’efficacia del succo di barbabietole per l’incremento della performance. Questo è dovuto alle variabili implicate quando si tratta di performance sportiva: parliamo di sforzi di endurance o di potenza? Atleti professionisti, amatori o sedentari? Il protocollo, quali dosaggi utilizza? Quanto dura il protocollo?
Quelle indicate sopra sono tutte variabili fondamentali da tenere in considerazione prima di affermare che un integratore (o un Superfood nel caso di succo di barbabietole) abbia proprietà ergogeniche (cioè sia efficace nel miglioramento della performance).
Un’attenta analisi dell’efficacia del succo di barbabietole, è possibile farlo solamente tramite un approfondimento accurato delle varie ricerche presenti nella bibliografia internazionale (in particolar modo le Review e le Meta-analisi). Attualmente, la meta-analisi più recente ed approfondita, è quella di Senefeld et al 2020, nella quale emergono i seguenti punti:
La maggior parte degli studi è stata effettuata su discipline/sforzi di endurance.
Attualmente il numero di campioni utilizzato nelle ricerche permette di trarre queste considerazioni solamente per gli atleti di sesso maschile.
I benefici sono statisticamente significativi per soggetti poco allenati, mentre non si hanno ancora certezze per atleti d’elitè. In altre parole, meno il soggetto è allenato, e maggiore è l’effetto del succo di barbabietola.
I miglioramenti (quando statisticamente significativi) sono in media del 3% nei Time Trial (esempio prova di corsa sui 10 Km o in bici di 40 Km) e del 10-20% in sforzi open-ended (cioè a ritmo costante ad esaurimento).
Protocolli: quando evidenti, i benefici possono manifestarsi anche con una sola dose contenente un equivalente di 400-1550 mg di nitrati, 2-3.5 ore prima della performance. 2 Ore si ipotizza sia il tempo minimo necessario prima che i nitrati entrino in circolo. In ogni modo, somministrazioni per più giorni (fino a 4-6) sembra possano avere un’efficacia leggermente superiore.
Probabilmente, dopo aver letto le conclusioni di sopra, il primo dubbio che può insorgere è il seguente:
In base al mio livello d’allenamento, posso trarre giovamento dall’integrazione con il succo di barbabietole?
Andando a leggere nei dettagli le ricerche riassunte nella meta-analisi, emerge che in tutti gli studi su soggetti poco allenati, il succo di barbabietole è riuscito a migliorare la performance, mentre per gli atleti d’elitè i risultati sono incerti; quest’incertezza è dovuta anche al numero minore di ricerche su atleti professionisti.
In ogni modo, in base ai pochi dati ora a disposizione, sembra che il succo di barbabietole possa essere efficace in soggetti con massimo consumo d’ossigeno (Vo2max) inferiore a 64.9 ml/min/Kg, che con estrema approssimazione (quindi con grande margine d’errore) corrisponde ad una performance di corsa sui 10 Km peggiore di circa 33’30” (dati estrapolati dal foglio di calcolo di Ranucci-Miserocchi).
Per fare un esempio molto generico, un runner che corre i 10 Km in 43’, potrebbe migliorare il suo tempo (tenendo conto il 3% citato sopra) di circa 1’17”; ovviamente questi sono dati estrapolati dalla media delle ricerche attualmente presenti in bibliografia internazionale, quindi non rappresentano una certezza; possono inoltre esserci grandi differenza tra atleta ed atleta. I benefici maggiori (in percentuale) si ottengono comunque nei confronti della resistenza allo sforzo prolungato, quindi è possibile ipotizzare che maggiore è la durata della gara e più certo possa essere il beneficio.
Beneficio che dipende anche dalla concentrazione iniziale di nitriti/nitrati del soggetto; analogamente alla creatina, gli effetti sono proporzionali a quanto il succo di barbabietole è in grado di elevare la loro concentrazione nel sangue. Più la concentrazione iniziale è bassa, più è probabile che sia efficace.
Per questo motivo è stato notato che supplementazioni di più giorni sono in grado avere effetti leggermente superiori rispetto alla singola dose pre-gara; visto che il picco di concentrazione si ottiene 2 ore dopo l’ingerimento, è consigliabile assumere la dose pre-gara 2 ore prima della partenza.
Chiudiamo questo paragrafo con una dovuta precisazione: la maggior parte degli studi sulla performance è stata condotta su soggetti di sesso maschile, o campioni in cui gli uomini erano in percentuale superiore alle donne; per questo motivo, è fondamentale puntualizzare che i concetti sopra espressi siano validi per uomini. Per quanto riguarda soggetti di sesso femminile, attualmente non esistono dati sufficienti per dare indicazioni sull’eventuale effetto ergogenico (e relativi dosaggi) del succo di barbabietola (Wickham e coll 2019).
Succo di barbabietole, calcio e recupero
L’effetto nei confronti delle discipline di endurance è sicuramente l’aspetto più conosciuto, ma esistono studi che hanno approfondito gli effetti in sport di diverse caratteristiche.
Immagino che la prima curiosità di molti addetti ai lavori, possa essere riferita alla possibile efficacia in sport di squadra come il calcio. Abbiamo trovato per la prima volta il succo di barbabietole nell’articolo dedicato al Leicester di Ranieri; infatti è possibile ipotizzare che un miglioramento della vasodilatazione e della diminuzione del costo metabolico possa essere utile anche in sport di natura intermittente come il calcio; questo potrebbe incidere sulla capacità di risintetizzare la fosfocreatina e di smaltire più velocemente i metaboliti della fatica. Inoltre, malgrado in media i calciatori possano avere dei Vo2max anche di poco superiori a 60 ml/Kg/min (Silimani e coll 2019), è difficile considerarli “atleti elitè d’endurance” (vista la natura del modello funzionale del calcio), e quindi è ragionevole ipotizzare che il loro livello di allenamento aerobico sia sufficientemente “basso” da poter beneficiare di questo tipo di integrazione. Ovviamente fino ad ora abbiamo fatto delle ipotesi; ma cosa dice la bibliografia internazionale?
Purtroppo attualmente gli studi che riguardano discipline intermittenti sono troppo pochi (vedi review di Dominguez e coll 2018), e i protocolli valutativi sono molto diversi (alcuni fatti al cicloergometro, che rappresenta uno sforzo diverso da quello del calciatore). Non solo, le volte che sono stati trovati effetti positivi in protocolli specifici come lo YoYo Intermittent recovery, i benefici trovati furono intorno al 3-4% (Wylie e coll 2013, Thompson e coll 2016, Nyakayiru e coll 2017). Siamo sicuri che, anche nella migliore delle ipotesi, questo guadagno (3-4% nello YoYo-IR) si possa tradurre in un miglioramento della performance talmente significativo da influenzare il risultato finale delle partite (che dipende da tantissime varianti)? Attualmente non è possibile saperlo, anche se io ho dei grossi dubbi che possa servire.
Ovviamente si potrebbe ipotizzare che il giocatore possa beneficiare di un miglioramento del potenziale atletico, anche se limitato, in virtù della capacità di recupero e di conseguenza ridurre il rischio di infortuni. Gli studi sull’argomento sono attualmente troppo limitati per dare una risposta certa; addirittura quelli che hanno ottenuto gli effetti più evidenti su atleti (Van Hoorebeke e coll 2016 e Montenegro e coll 2017) hanno utilizzato succo di barbabietole concentrato in betalaina, partendo dal presupposto che questa sostanza antiossidante, naturalmente presente nel succo di barbabietola, possa garantire la maggior efficacia (anche rispetto ai nitrati) nel recupero. Di conseguenza, al momento, non è possibile identificare il succo di barbabietole come un alimento efficace per il recupero.
Stessa cosa si può dire per gli sport di forza e per il bobybuilding; fino a quando non si avrà una produzione scientifico/letteraria adeguata, non si può affermare nulla. Per queste discipline in cui forza e massa muscolare sono fondamentali, l’integratore migliore (previo consulto medico o specialistico) in presenza di una dieta adeguata, rimane attualmente la creatina.
I migliori prodotti: apporto alimentare o integratori?
Mangiare barbabietole al fine di ottenere una quantità equivalente di succo per ingerire il giusto apporto di nitrati direi che è particolarmente disagevole; di conseguenza, il succo di barbabietole (come utilizzato nelle varie ricerche) è la soluzione ideale per integrare con questo superfood. Ma quali sono i requisiti di un prodotto di qualità? Nell’infografica sotto, potete vedere tutti i punti fondamentali per un integratore a base di succo di barbabietole per sportivi:
Il prodotto ideale per chi vuole utilizzare il succo di barbabietole come integratore è il Beet-it sport 400. Vediamo ora i motivi andando ad analizzare i 4 punti dell’infografica sopra:
Quantità minima di nitrati efficace: estrapolando dai dati ottenuti nelle varie ricerche, una quantità compresa tra 400 e 520 mg di nitrati direi che possa essere considerata ideale. Il beet-it sport 400, contiene 400 mg di nitrati, quindi una dose sufficiente.
Ingredienti: contiene il 98% di succo di barbabietole concentrato (per permettere un formato comodo di 7 cl) e il 2% di succo di limone. Il limone è aggiunto semplicemente per migliorarne il sapore e per stabilizzare il ph. Non sono presenti altri ingredienti.
Rispetto norme buona fabbricazione: il Beet-it sport 400 può vantarsi del marchio Informed-sport, che certifica che il prodotto è stato testato da un laboratorio antidoping senza rilevare impurità che possono dare positività ai controlli. L’unico difetto che si può attribuire, è il fatto che gli ingredienti utilizzati non sono certificati di origine biologica; volendo essere pignoli, il Beet-it organic shot, è un prodotto biologico equivalente, ma senza il marchio Informed-sport e con 100 mg di nitrati in meno.
Reputazione azienda/prodotto: il Beet-it sport 400 nel 2017 è stato insignito come “Editor’s choice” da MEN’s Running; inoltre, tra i testimonial del prodotto troviamo tra i migliori maratoneti e mezzofondisti al mondo, come Geoffrey Kamworor (vincitore della maratona di New York del 2017) e gli atleti dell’NN Running Team, che ha al loro interno atleti come Eliud Kipchoge (che detiene l’attuale record in maratona con 2h01’39”) e Joshua Cheptegei; quest’ultimo detiene il record del mondo sui 5000m (12’36”) e sui 10000m (26’11”).
Una volta compreso perché il Beet-it sport 400 sia il miglior integratore di succo di barbabietole per sportivi, facciamo una breve rassegna di altri buoni prodotti per sportivi e non.
La stessa sostanza, ma in confezione da 250 ml è il Beet It Sport Nitrate 3000; all’interno ci sono 7 porzioni da circa 35 ml di 400mg di nitrati, da consumare preferibilmente in momenti diversi; la difficoltà nell’utilizzo di questo prodotto sta nel riuscire a misurare ed utilizzare porzioni di 35 ml precise. Come accennato prima, la versione “shot” biologica (certificata Soil) è il Beet-it organic shot; questa contiene 300 mg di nitrati in succo concentrato, senza essere certificato Informed-sport.
Tra le novità da poco presenti sul mercato, troviamo il Beet It Sport Nitrate 8000 in cristalli; la comodità di questo prodotto è che nel barattolo di 210g in polvere, sono presenti 20 dosi da 400mg. Analogamente al Beet-it sport 400 visto all’inizio, anche questo è certificato Informed-sport e non contiene additivi (presente solamente concentrato di succo di barbabietole in cristalli).
Dove trovare i prodotti della Beet-it?
Abbiamo visto come la linea Beet-it sia l’ideale per gli sportivi che vogliano provare il succo di barbabietole; ma dove acquistare questi prodotti? Non esistendo attualmente distributori Italiani diretti, il modo migliore per acquistarli è nel sito del produttore (i prezzi sono in sterline) o su ChainReactionCycles.
Il succo di barbabietole può essere considerato un superfood ed allo stesso tempo un integratore da surplus di nitrati, cioè sostanze che si assumono normalmente con la dieta, ma incrementandone correttamente i dosaggi permette di avere un effetto fisiologico superiore per alcune categorie di soggetti. Prima di assumere qualsiasi integratore, è sempre bene chiedere prima consiglio al proprio medico, dietologo o personale qualificato in materia (nel prossimo capitolo potrete leggere le avvertenze).
Per chi volesse invece il succo di barbabietole da consumare con una certa regolarità per il proprio benessere?
Ovviamente esistono anche prodotti “non concentrati” in bottiglia o in tetra-pack; per comprendere quanti mg di nitrati sono presenti, ricordiamo che in media 100 grammi di succo di barbabietola contengono circa 280 mg di nitrati. Inoltre, è importante valutare sempre i requisiti dell’immagine ad inizio capitolo (nitrati presenti, ingredienti, norme di buona fabbricazione e reputazione azienda) per scegliere tra i prodotti migliori in commercio. Tra i migliori, citiamo il succo biologico della Beet-it.
Quali sono le alternative al succo di barbabietole?
In una delle immagini dei capitoli precedenti abbiamo visto la quantità di nitrati presenti in alcuni vegetali; nella ricerca di Jonvik e coll 2016, venne visto che il succo di barbabietole non è probabilmente l’alimento più efficace in assoluto per l’assunzione di nitrati, ma è sicuramente il più comodo tra quelli più proficui.
Di norma, tutte le verdure a foglia verde contengono buone quantità di nitrati, anche se è improponibile pesare e calcolare la quantità di nitrati ingeriti dalla verdura, vista l’elevata variabilità del contenuto di nitrati che è possibile trovare. L’equipe dello stesso autore citato prima (Jonvik e coll 2017) vide che in media un atleta ingerisce 106 mg di nitrati al giorno, ma con grandi differenze da individuo ed individuo (da 19 mg a 525 mg); il consumo di nitrati inoltre, è correlato alle porzioni di verdure ingerite. Possiamo quindi concludere che la regola aurea (da noi sempre citata) di assumere giornalmente 5 porzioni di frutta e verdura, è estremamente valida, anche per quanto riguarda l’assunzione di nitrati.
Il succo di barbabietole rimane quindi l’alimento più comodo e salutare in grado di apportare con certezza una determinata quantità di nitrati, ma allo stesso tempo è importante comprendere come sia fondamentale mangiare regolarmente frutta e verdura non solamente per la presenza di questi, ma per tutta una serie di componenti di origine vegetale che hanno una grande impronta sul nostro benessere.
Ma il nitrato presente nei salumi (usato come conservante) è la stessa cosa di quello presente nella verdura? Nel prossimo capitolo avrete la risposta a questo quesito; ma puntualizziamo prima 2 aspetti che ritengo abbastanza importanti.
Che sapore ha il succo di barbabietole?
Domanda quantomai lecita, visto che non è un alimento che si trova tutti i giorni sulla tavola. Molti riportano che il sapore non sia particolarmente gradevole, ma unendolo ad altri succhi di frutta il gusto spiacevole si elimina.
Attenzione ai collutori antibatterici
Come abbiamo visto sopra, la trasformazione da nitrati a nitriti (la forma attiva per generare l’ossido nitrico) avviene principalmente nella bocca, grazie ai batteri presenti nella cavità orale. I collutori antisettici contenti Clorexedina sono in grado di ridurre la flora batterica orale, limitando la trasformazione di nitrati in nitriti (necessaria per la produzione di NO) (Oliveira-Paula e coll 2019); è stato visto come la conseguenza sia quella di poter addirittura incrementare la pressione arteriosa (Tribble e coll 2019). Fortunatamente, l’integrazione con succo di barbabietole concomitante all’utilizzo di collutori antisettici è comunque in grado di avere un effetto positivo nei confronti della pressione arteriosa, cioè di abbassarla (Woessner e coll 2016) con differenze tra un prodotto e l’altro. Possiamo quindi affermare che è corretto l’utilizzo dei collutori quando necessario, cioè quando prescritto dal proprio dentista o dal proprio medico/specialista; non è un prodotto di cui abusarne nel caso in cui non ci sia la necessità di utilizzarlo. Per chi consuma il succo di barbabietole a fini sportivi, è importante utilizzare il collutorio (se necessario) in orari possibilmente diversi dall’assunzione del succo. A chi soffre di ipertensione e viene prescritto un collutorio, sarebbe bene si informasse con il proprio medico/specialista dei possibili effetti avversi (aumento della pressione), in particolar modo in relazione alla lunghezza del periodo di somministrazione del prodotto.
Nitrati, carne e salute
Nel nostro articolo dedicato alle fonti proteiche, abbiamo visto come siano da limitare le carni rosse lavorate, riconosciute ufficialmente dall’OMS come causa di tumori. Le conoscenze attuali non permettono di comprendere pienamente quali molecole o sostanze presenti nelle carni processate siano causa di tumori; alcune delle sostanze incriminate sono i nitriti usati come additivi e conservanti. Ovviamente i nitriti non sono molecole cancerogene di per sé, ma potenzialmente in grado di legarsi ad altre sostanze nell’apparato digerente formando sostanze pericolose come le nitrosammine.
Nel 2008, l’EFSA ha stabilito in 3.7 mg/Kg al giorno l’introito massimo di nitrati e di 0.07/mg/Kg quello di nitriti; successivamente, la legge Italiana ha fissato un limite massimo di nitrati e nitrati che si possono utilizzare nei salumi come conservanti e limiti anche per quello che riguarda la loro presenza nell’acqua. Alcuni marchi, inseriscono Vitamina C (acido ascorbico) come additivo insieme ai nitriti e ai nitrati per limitare la produzione di nitrosamine (Tannenbaum 1989); infatti, l’ingestione contemporanea di sostanze ad azione antiossidante ai nitriti/nitrati ne limita la trasformazione in sostanze cancerogene.
Ovviamente non siamo qui a discutere la salubrità o meno dei salumi in relazione agli additivi presenti (peraltro già approfondita nell’articolo sulle fonti proteiche), ma per comprendere se l’elevata presenza di nitrati all’interno dei vegetali possa porre delle limitazioni al consumo della verdura (compreso il succo di barbabietole) analogamente a quello che avviene per i salumi. È del tutto ragionevole ipotizzare che la presenza di Vitamina C e sostanze antiossidanti all’interno dei vegetali (compresa la verdura) sia un importante fattore protettivo nei confronti dello sviluppo dei tumori legati all’apparato digerente, proprio per il fatto che queste sostanze inibiscono la formazione di nitrosammine (cioè le sostanze cancerogene) all’interno dell’apparato digerente; tutto questo è stato anche confermato da un documento dell’EFSA del 2008 (pagina 67). Non a caso, l’ultima importante revisione di Bradbury e coll 2014 ha messo in evidenza come il consumo di frutta, verdura e fibre sia inversamente proporzionale (cioè abbia effetto protettivo) nei confronti di alcuni tipi di tumori, anche se in maniera molto lieve; nello studio Italo-Svizzero di Turati e coll 2015, si conclude come un elevato consumo di frutta e verdura abbia un impatto favorevole nella protezione dello sviluppo di vari tipi di tumori, in particolar modo quelli legati all’apparato digerente.
Le stesse conclusioni valgono per il succo di barbabietole?
Si, è stato dimostrato che il succo di barbabietole è in grado prevenire alcuni tipi di tumori come quelli al fegato, esofago, prostata, pelle, polmoni e al seno (Lidder e coll 2012); si pensa che la betalaina naturalmente presente nel succo, possa essere una delle molecole maggiormente responsabili di questo beneficio.
Possiamo quindi concludere che i nitrati naturalmente presenti nei vegetali abbiano prevalentemente impatto favorevole nei confronti della salute, anche quando, con il succo di barbabietole si eccede il limite di 3.7 mg/Kg al giorno (ad esclusione di parere specialistico).
Quando è da prestare attenzione ai nitrati?
Nei precedenti paragrafi, abbiamo spesso sottolineato l’efficacia dei nitrati “naturalmente presenti” nei vegetali; infatti, le fonti inquinanti e l’utilizzo massiccio di fertilizzanti sono in grado aumentare in maniera “non naturale” la quantità di nitrati/nitriti, ma anche una serie di contaminanti e sostanze dannose che poi possiamo trovare nei vegetali che consumiamo. Tutto questo rappresenta un potenziale pericolo per la nostra salute.
Fortunatamente bastano pochi accorgimenti per evitare questi tipi di rischi, come comprare frutta e verdura di origine biologica, oppure dalla grande distribuzione (catene di supermercati) o da commercianti da cui si ha la massima fiducia sulla qualità dei prodotti; per un ulteriore approfondimento, vi invito a visionare questo servizio delle Iene.
Per chi è sconsigliato il succo di barbabietole? Esistono effetti collaterali?
Come abbiamo visto sopra, il succo di barbabietole è in grado di abbassare la pressione sistolica; malgrado questo sia un effetto positivo per la maggior parte delle persone (in particolar modo per gli ipertesi), dovrebbero prestare attenzione (rivolgendosi al proprio medico/specialista) chi assume già sostanze/farmaci aventi questo effetto, per evitare che il risultato diventi eccessivo.
Un effetto collaterale può essere quello di avere l’urina rossa o viola (beeturia); ovviamente la causa non è altro che la presenza di pigmenti rossi (betalaina) all’interno del succo. Analogamente a quello che avviene per gli spinaci e per gli asparagi, se la colorazione dell’urina è dovuta a questi fattori, non rappresenta un problema per la salute.
Il succo di barbabietole è sconsigliato per chi soffre di acidità di stomaco e di ipotiroidismo.
Conclusioni
In questo post abbiamo visto come sia possibile considerare il succo di barbabietole come uno dei Superfood più efficaci a dosaggi alla portata di tutti. Ovviamente non siamo di fronte ad un alimento miracoloso, ma ad un prodotto (se assunto correttamente) in grado di avere effetti positivi nei confronti della pressione arteriosa ed in grado di migliorare di qualche punto percentuale la performance di endurance (con evidenza solo per amatori di sesso maschile). È da precisare che questi effetti sono dovuti ai nitrati naturalmente presenti nell’alimento in sinergia con le altre sostanze che si trovano nel succo di barbabietole.
Quando si parla di “effetti positivi” si riferisce alla media statistica degli studi presenti in bibliografia internazionale; le caratteristiche e lo stato fisiologico del soggetto (sesso, pressione media, concentrazione media di nitriti/nitrati nel sangue, età, ecc.) sono le variabili che influiscono sulla potenza degli effetti di questo alimento.
Inoltre ricordiamo che quando “si parla di salute” vale sempre il principio di precauzione; soggetti in determinati stati patologici (ipertensione, cardiopatie, ecc.), fisiologici (gravidanza o allattamento) o che prendono medicinali, devono chiedere informazioni a personale qualificato prima di assumere questo alimento.
Solamente uno stile di vitacorretto nella sua integrità (alimentazione, attività sportiva, eliminazione fattori di rischio, ecc.) può garantire la massima efficacia nei confronti della salute ed influenzare positivamente la performance sportiva.
Rimani in contatto con noi per essere informato sulle nuove pubblicazioni ed aggiornamenti del nostro sito, connettendoti al mio profilo linkedin.
Autore dell’articolo: Melli Luca, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960, preparatore atletico AC Sorbolo e Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto (melsh76@libero.it)
Malgrado un’adeguata alimentazione sia fondamentale per chiunque, gli aspetti nutrizionali per un atleta che si appresta a preparare e correre competizioni di endurance, sono tanto più importanti quanto più la distanza di gara è elevata. In particolar modo le riserve e la biodisponibilità di carboidrati giocano un ruolo significativo, perché rappresentano la fonte energetica principale senza la quale è impossibile mantenere una certa intensità per l’intera gara. In questo post andremo quindi a considerare come, nella dimensione del maratoneta, l’allenamento, l’alimentazione e l’integrazione* svolgono i loro ruoli. In particolar modo, approfondiremo il “Trail Low – Compete High”, qual è la strategia integrativa migliore da assumere in gara (poi adattata alle proprie caratteristiche) e come questa si forma in allenamento.
*ATTENZIONE: le informazioni contenute sul nostro blog hanno esclusivamente scopo informativo, e in nessun caso possono costituire o sostituire parere e prescrizione medica e specialistica. Si raccomanda di chiedere sempre il parere del proprio medico curante e/o di specialisti prima di assumere integratori!
ALLENAMENTO
Rappresenta sicuramente la fase più importante della dimensione del maratoneta; senza un adeguato allenamento è inutile presentarsi alla partenza. Riportiamo sotto i link ai post che abbiamo dedicato all’argomento:
Sotto invece potete trovare l’immagine riassuntiva degli elementi chiave per la preparazione di una maratona.
ALIMENTAZIONE
I principi base dell’alimentazione del maratoneta non sono diversi da quelli consigliati per il resto della popolazione; particolare attenzione (soprattutto chi si allena molte volte a settimana) è necessario porre all’introito calorico giornaliero che dovrà essere in grado di supportare la spesa energetica. Numerose ricerche hanno dimostrato come un insufficiente apporto di carboidrati comporti un peggioramento del rendimento in allenamento. Le linee guida di Burke e coll 2007 sono quelle di consumare 7-10 grammi su Kg di peso corporeo al giorno di carboidrati per gli atleti che effettuano elevati volumi di allenamento (professionisti) e 5-7 g/Kg al giorno per chi effettua un volume più moderato; questi numeri vanno poi adeguati alle caratteristiche e alla soggettività degli atleti. Quello che è importante comprendere, è che nel periodo in cui si prepara una maratona, non è da ricercare nessun tipo di restrizione calorica (ad eccezione dell’eventuale “Train Low – Compete High” che vedremo di seguito), in quanto potrebbe andare a compromettere il rendimento in allenamento. Per chi volesse approfondire ulteriormente l’argomento, consigliamo di leggere il testo di Roberto Albanesi sulla Maratona
Ma è consigliabile assumere integratori a base di carboidrati al di fuori del contesto di gara? La risposta è “dipende”…dipende se con l’alimentazione si è in grado di coprire il fabbisogno generale di nutrienti. A mio parere, è importante cercare prima di tutto di soddisfare il proprio fabbisogno nutrizionale con l’alimentazione, per 2 motivi principali: il primo, perché permette di acquisire corrette abitudini che si porteranno dietro tutta la vita, e il secondo perché sarà più facile trasmetterle a chi ci sta vicino. Al di fuori di questo, è ovvio che l’integrazione può aiutare quando non si riesce a soddisfare il proprio fabbisogno con la dieta.
Cos’è il carbo-load (carico di carboidrati)? È la strategia alimentare che solitamente viene impostata nei giorni precedenti alla maratona, per massimizzare in maniera fisiologica le scorte di carboidrati all’interno del proprio corpo (glicogeno). Come tutte le altre strategie alimentari, va provata precedentemente in altre occasioni, per valutare la risposta soggettiva al protocollo ed adeguarla in base alle proprie caratteristiche. Per approfondire l’argomento, potete leggere il post dedicato al carico di carboidrati.
Nell’immagine sotto riportiamo le linee guida riguardanti l’assunzione di carboidrati in sport di endurance, che potete leggere in maniera dettagliata nel post dedicato all’argomento.
Facendo 2 conti, è improponibile ipotizzare che un maratoneta che conclude la sua gara in più di 3 ore (ad esempio), riesca ad ingerire una quota di carboidrati pari a 90 grammi all’ora (ricordiamo che un gel ne contiene circa 20-25 grammi). Di conseguenza, le linee guida riportate sopra, possono essere ottimali per un ciclista o al massimo ad un triatleta durante la frazione di bici, ma non per un runner, per il semplice motivo che è veramente difficile tollerare l’ingestione dei fluidi (e conseguentemente rifornirsi di carboidrati) quando si corre. Infatti, nell’immagine sotto sono riportati i dati ottenuti dalla ricerca di Pfeiffer e coll, 2012, in cui venne visto che in media, un maratoneta assume in gara circa 35 grammi di carboidrati all’ora. Altre fonti molto autorevoli, considerano 30 grammi come la quota che è realisticamente possibile assumere in un’ora di gara.
Ma teoria e pratica, non sempre vanno nella stessa direzione; una ricerca molto interessante di Hansen e coll 2014, comparò il tempo finale di maratoneti amatori tra 2 gruppi sperimentali; il primo che ha seguito una strategia di integrazione pre-stabilita in almeno 60 grammi/ora di carboidrati, mentre il secondo una strategia libera. I primi, alla fine ingerirono una media di 64.7 carboidrati/ora, mentre i secondi 38 g/h; la differenza sul tempo finale medio, fù che il primo gruppo (cioè quello che ingerì più carboidrati) finì la maratona circa 11 minuti prima dimostrandosi il 4.7% più veloce. Altro aspetto importante di questa ricerca, fù che l’ingestione di fluidi tra i 2 gruppi, fù pressappoco la stessa, cioè 600-700 ml/h, in linea con le indicazioni di Noakes 2003), senza differenza significativa per quanto riguarda i disturbi gastrointestinali. Questi risultati, affermano che
è possibile assumere in maratona fino a 60 g/h di carboidrati seguendo una strategia di rifornimento idrico compreso tra 400-800 ml/h
(linee guida di Noakes 2003) con probabilità di incorrere in disturbi di tipo gastrointestinale “non superiori” a quelli di quote di carboidrati inferiori.
Se però, i consumi “ad libidum” (cioè spontanei) di carboidrati si assestano in media su quote inferiori ai 40 g/h, è possibile comprendere come sia necessario prestare particolare attenzione a questo aspetto in gara (ed in allenamento) da parte dell’atleta, tenendo in considerazione che:
L’assunzione di carboidrati può avvenire tramite gel, borracce personalizzate e utilizzo di prodotti dei ristori.
È bene arrivare alla quota massima, ottimizzando l’aspetto gestionale (che è la parte più difficile) partendo da circa 30-40 g/h ed incrementando di 5-10 g/h di maratona in maratona fino ad un massimo di 60 g/h.
Provare precedentemente questo protocollo in gare più corte (almeno 20 Km) e/o in allenamento, utilizzando la quota “target” di assunzione di carboidrati almeno negli ultimi 60-90’ di prova.
Per quanto riguarda l’assunzione di fluidi, molto dipende dalla temperatura ambiente; nel nostro post dedicato all’argomento, abbiamo riportato le indicazioni di Goutlet e coll 2012, che sono comunque generiche per sport di endurance. Per quanto riguarda la maratona nello specifico, consigliamo di seguire le linee guida di Noakes 2003, cioè di bere per la sete che si ha, senza andare oltre i 400-800 ml/h (a seconda della soggettività). Infatti, i climi ai quali si effettuano le maratone, solitamente non sono particolarmente caldi, ma è chiaro che oltre una certa temperatura, la necessità (e di conseguenza l’ingestione) di fluidi potrebbe essere anche maggiore, a seconda della soggettività; per un ulteriore approfondimento, vi invitiamo a leggere questo articolo di Roberto Albanesi. Ovviamente, non è da dimenticare l’assunzione di Sali, che comunque sono presenti nella maggior parte degli integratori a base di carboidrati. Nell’ultimo paragrafo del post, potete vedere alcuni esempi di linee guida per allenare la tolleranza all’ingestione di fluidi e carboidrati in gara.
TRAINING LOW – COMPETE HIGH
Nel concetto di carbo load, abbiamo indicato come l’ingestione di una quota di carboidrati leggermente superiore alla norma, nei giorni che precedono una maratona, comporta un maggior accumulo di questi (sottoforma di glicogeno) nei muscoli e nel fegato; questo permette di partire con una maggiore scorta di glicogeno, che è la fonte energetica principale della corsa. Ma questa strategia è efficace esclusivamente se si ha un’elevata capacità di “Immagazzinare” glicogeno nei muscoli; quest’ultima qualità è migliorabile prevalentemente tramite un elevato chilometraggio settimanale. Ciò, è anche in parte possibile tramite allenamenti che portino ad una deplezione importante di glicogeno nei muscoli. Gli allenamenti classici che inducono questo stimolo biologico sono i lunghi e le gare superiori all’ora. Questi stimoli allenanti però, richiedono diverso tempo per essere recuperati, soprattutto per le microlesioni muscolari indotte da traumi prolungati ed intensi. L’obiettivo del TRAIN LOW – COMPETE HIGH (che abbrevieremo in TLCH) invece è quello di dare un ottimo stimolo biologico nella stessa direzione (cioè di svuotare le scorte di glicogeno), minimizzando però i microtraumi muscolari.
In poche parole, si tratta di iniziare la seduta d’allenamento TLCH con una riserva di glicogeno inferiore rispetto alla norma; la conseguenza è che necessiteranno meno km (rispetto ad un lungo) per svuotare tali scorte, e di conseguenza per avere lo stimolo biologico adeguato. Il beneficio principale, sarà quello di avere un input allenante ottimale con un allenamento più breve (rispetto ad un lungo), quindi fattibile anche infrasettimanalmente (per chi lavora).
Ma com’è possibile “limitare le scorte di glicogeno” prima dell’allenamento?
Nel pasto (o nei 2 pasti) che precede l’allenamento si limita il consumo di carboidrati (le cui fonti sono pane, pasta, dolci, patate, ecc). In questo modo le scorte di glicogeno muscolari saranno inferiori alla norma e di conseguenza saranno necessari meno Km per “svuotare le riserve” ed avere lo stimolo voluto. Ovviamente le calorie che in questi pasti non si introducono con i carboidrati, andranno introdotte tramite altri macronutrienti, preferibilmente tramite grassi “buoni”, come quelli derivati dalla frutta secca (a patto che non si abbiano intolleranze o allergie a tali alimenti); le altre abitudini dietetiche (frutta, verdura, quota proteica, quota calorica totale, ecc.) devono rimanere le stesse per evitare di aver ripercussioni negative sul bilancio energetico.
Ma quanto deve essere lungo l’allenamento?
Attualmente non esiste una formula universalmente riconosciuta per stabilire la durata di questo stimolo; comunque, a mio parere, un allenamento della lunghezza pari a 3/4 dell’ultimo lungo, potrebbe permettere di avere uno stimo allenante sovrapponibile con ovvie differenze dovute alla soggettività ed al grado di allenamento. Ad esempio, se l’ultimo lungo è della lunghezza di 20 Km, potrebbero bastare 15 Km per avere uno stimolo biologico paragonabile, ma con un affaticamento muscolare ridotto. Ciò non significa che tutti gli allenamenti di TLCH devono essere di una lunghezza tale da comportare una deplezione significativa delle scorte di glicogeno, ma che a pari distanza, un allenamento con strategia alimentare TLCH comporta un maggior deplezione di glicogeno rispetto ad un approccio nutrizionale standard.
Prima di effettuare questo tipo di allenamenti sono da fare 2 importanti considerazioni:
1) GRADUALITA’: questi tipi di stimoli sono da introdurre con estrema gradualità, sia dal punto di vista delle modificazioni alimentari, che dal punto di vista dei chilometraggi. Infatti non tutti i podisti reagiscono a questo protocollo allo stesso modo, per questo motivo le eventuali variazioni nei pasti che precedono l’allenamento considerato, devono esser estremamente graduali. Anche lo stesso allenamento, dovrà essere corso prevalentemente di corsa lenta, con eventuale progressione finale solo nel caso in cui non ci si senta affaticati. In altre parole, questa è una strategia che può essere fatta periodicamente (esempio una volta a settimana), ma non deve modificare le corrette abitudini alimentari!
2) PERIODO DELLA STAGIONE: a mio parere, per un maratoneta amatore, questo tipo di allenamento deve essere affrontato nel periodo che precede i lunghissimi e non nel periodo specifico dei lunghissimi; infatti, è importante seguire la regola secondo la quale sarebbe meglio non fare più di un allenamento a settimana che causi una deplezione di glicogeno particolarmente significativa.
Di conseguenza, quando i lunghissimi cominciano ad avere proporzioni importanti, questi devono essere gli unici allenamenti che, settimanalmente, comportano una deplezione particolarmente significativa delle scorte di glicogeno. Ovviamente i lunghissimi, devono essere iniziati con le riserve di glicogeno adeguate e con eventuale integrazione durante l’allenamento; questo sia per abituarsi ai protocolli integrativi di gara, che per evitare di finire questi allenamenti in condizioni tali da necessitare troppo tempo per recuperarli. Quello che è importante comprendere, è che il TLCH rappresenta un’eccezione (gradualmente inserita) nella normale routine alimentare, e non la prassi, altrimenti il rendimento in allenamento calerebbe e incrementerebbe il rischio di infortuni.
CONCLUSIONI
Concludiamo dando uno sguardo allo studio di Stellingwerff 2012, che contestualizza molto bene gli aspetti approfonditi sopra, seppur in un contesto va adattato al mondo amatoriale; infatti, nella ricerca viene analizzata la preparazione e l’aspetto alimentare/integrativo di 3 maratoneti d’elitè; nell’immagine sotto, è possibile vedere il numero medio di sedute settimanali dedicate al TLCH nei vari periodi d’allenamento (colonne blu) e quelli in cui viene ricercata l’abitudine/tolleranza all’ingestione di fluidi/carboidrati (colonne rosse).
Tenendo in considerazione che gli atleti in questione effettuavano circa 13 allenamenti settimanali, è possibile notare come nel periodo generale/specifico, 1 allenamento su 5 era sottoforma di TLCH; per quanto riguarda invece l’abitudine alla tolleranza dei fluidi, vennero date le seguenti linee guida:
In ogni allenamento (periodo generale/specifico) di durata superiore alle 2 ore, assumere circa 30-60g di carboidrati per ora, e bere 400-600 ml/h di acqua, pesandosi prima e dopo, per comprendere se in questo modo si riusciva a contenere nel 2-3% la perdita di peso.
Nelle ultime 3 settimane, veniva consigliato lo stesso protocollo, ma per tutti gli allenamenti della durata superiore ai 75’.
Ricordiamo che i 3 atleti della ricerca, in questo modo riuscirono ad ingerire il giorno della gara circa 60 g/h di carboidrati in circa 600 ml/h di liquidi, in linea con le indicazioni date nei precedenti paragrafi.
Ovviamente questi dati vanno presi “cum grano salis” (in quanto un amatore ha tempi diversi rispetto ad un Top Runner), ma fanno capire come l’inserimento del TLCH sia un’eccezione alla normale routine (vedi indicazioni del precedente paragrafo) e come sia importante abituarsi alla gestione organica dei rifornimenti, cercando la migliore strategia integrativa ed idrica per avere un giusto apporto di carboidrati (vista l’importanza che può avere sul tempo finale) e non perdere più del 2-3% del peso corporeo. In questo modo, il giorno della gara si sarà in grado di gestire con più padronanza e consapevolezza i rifornimenti, e di conseguenza la propria performance.
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Autore dell’articolo: Melli Luca, Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 e preparatore atletico AC Sorbolo. Email: melsh76@libero.it
Quando si parla di integratori a base di carboidrati è fondamentale specificare quando e a che scopo assumerli; visto che i carboidrati sono presenti in molti cibi, in varie forme e quantità, ha senso approfondire l’integrazione con integratori di questo tipo solo quando questi danno un vantaggio, dal punto di vista logistico e digestivo, superiore rispetto all’assunzione dei semplici alimenti*. È quindi inutile parlare di integratori di carboidrati aventi come scopo il dimagrimento, mentre ha senso trattare questi prodotti quando è necessaria una comoda, rapida e facile (dal punto di vista digestivo) assimilazione in competizioni superiori ad una certa durata.
*ATTENZIONE: le informazioni contenute sul nostro blog hanno esclusivamente scopo informativo, e in nessun caso possono costituire o sostituire parere e prescrizione medica e specialistica. Si raccomanda di chiedere sempre il parere del proprio medico curante e/o di specialisti prima di assumere integratori!
Nel post dedicato all’idratazione e all’integrazione, abbiamo già chiarito quando questi sono necessari e le linee guida per il loro utilizzo. In questo post invece cercheremo di aiutare il lettore a scegliere i migliori prodotti per rapporto qualità/prezzo; potranno trovare utile questo post tutti quegli atleti di sport di endurance che gareggiano su distanze che rendono necessaria un’adeguata integrazione in gara. Partiamo quindi dall’aspetto fisiologico, riassunto nell’immagine sotto, già approfondita nel post dedicato all’idratazione e all’integrazione in gara.
REQUISITI DI BASE
Se avete letto il precedente post, sapete già come la reale necessità di integratori a base di carboidrati esiste prevalentemente durante la gara. In base alla durata della manifestazione, possiamo inizialmente suddividere 2 tipi di necessità:
Per le gare inferiori alle 2h30′-3h, è sufficiente l’apporto di carboidrati (soluzione ipotonica), ed è opzionale quello dei Sali (da preferire se è molto caldo perché aiutano l’idratazione)
Per gare di durata maggiore, è bene utilizzare assolutamente i Sali e carboidrati differenti (l’esempio più comune è maltodestrine+fruttosio).
Poi, in base alla logistica ed alla durata è bene anche considerare la forma di assunzione; tra queste troviamo la forma solida (gare molto lunghe, preferibilmente in bicicletta), in borraccia o in gel.
Nel nostro post dedicato alla qualità degli integratori, abbiamo visto quali sono gli elementi peculiari delle migliori marche (vedi immagine sotto).
Contrariamente a quello che accade per le proteine (vedi protein spiking) e per la creatina, purtroppo Labdoor (il laboratorio indipendente che confronta i vari prodotti) non analizza gli integratori a base di carboidrati, quindi è difficile fare una classificazione precisa di quanto presente in commercio. In ogni modo può essere corretto accettare che le migliori marche offrano i prodotti migliori, o che per lo meno, al loro interno ci sia quanto realmente indicato sull’etichetta.
Ovviamente è impossibile analizzare tutti prodotti presenti sul mercato, per questo motivo, partendo dai presupposti espressi nel precedente post, riportiamo le caratteristiche/ingredienti che dovrebbe avere un GEL, in maniera tale che ci si possa fare un’idea:
Ma andiamo brevemente ad analizzare l’immagine sopra:
Il formato ideale è di 25-50 ml per permettere ad un runner di tenerlo in mano sin dalla partenza e (nel caso del peso minimo di 25 ml) anche in una piccola tasca. Per i ciclisti, le tasche posteriori consentono una maggiore comodità nel trasporto.
I 20-40 grammi di carboidrati per porzione sono definiti per permettere di poter assumere una quota significativa, ma con il minimo rischio di effetti collaterali (solitamente disturbi gastrointestinali).
L’aggiunta di Sali e caffeina ovviamente modifica le caratteristiche del prodotto. Come abbiamo già visto l’aggiunta di Sodio può essere maggiormente necessaria oltre le 4 ore di sforzo, ma anche per gare di durata inferiore può essere utile; oggi quasi tutti gli integratori di questo tipo contengono sodio. La caffeina può avere effetti ergogenici, ma c’è da prestare attenzione agli eventuali effetti avversi e ai dosaggi; la maggior parte dei prodotti ha la linea con e senza caffeina.
Ingredienti normalmente presenti: gli aromi naturali sono importanti per il gusto del prodotto, gli addensanti-gelificanti per dare la consistenza di gel e i regolatori di acidità come l’acido citrico, oltre a garantire la sicurezza alimentare del prodotti (acidificando la sostanza ed impedendo la formazioni di batteri), funzionano anche da addensanti.
Ingredienti inutili, ma non dannosi: proteine, aminoacidi, erbe, coloranti naturali e antiossidanti non è mai stato provato che apportino beneficio in questo tipo di prodotto, per questo motivo sono inutili. Le stesse vitamine del gruppo B che sono inserite nelle linee guide Ministeriali, non è mai stato provato essere efficaci se introdotti in questi integratori; malgrado questo quasi tutti i prodotti le utilizzano, proprio perché sono inserite nelle linee guida ministeriali.
Attenzione a certi ingredienti: è possibile trovare all’interno di questi prodotti (è sufficiente leggere l’etichetta) anche dolcificanti/edulcoranti sintetici e conservanti. Sono additivi che, malgrado siano permessi, sono assolutamente sconsigliati o da evitare; per approfondirne gli effetti deleteri sul microbiota intestinale, consiglio di leggere il nostro articolo su sport e microbiota. È l’esempio del benzoato di sodio, utilizzato in diversi soft-drink ed in alcuni gel che, in presenza di acido ascorbico (Vitamina C, utilizzata come antiossidante), può formare tracce di benzene, che è un noto cancerogeno.
Non potendo, per ovvi motivi di spazio, considerare tutti i prodotti presenti sul mercato, ci limitiamo a recensire i migliori, per dare qualche indicazione e fare qualche esempio.
ENERGY GEL ELITE’: è, a mio parere uno dei migliori in assoluto per il rapporto qualità/prezzo. Non solo, la marca (Myprotein) è una garanzia, e ogni campione di prodotto viene analizzato dal programma informed-sport per garantire che non esistano al suo interno tracce di sostanze che possano dare positività all’antidoping. Vista la quantità di carboidrati presenti (25 g), a mio parere è l’ideale per chi corre; sono presenti anche elettroliti.
Purtroppo quest’ottimo prodotto non è sempre disponibile; quindi andiamo ora a vedere le possibili alternative, cioè altre opzioni che totalmente o in parte vanno a replicare i criteri soddisfatti dall’Energy gel elitè. Una delle migliori alternative attualmente sul mercato è il Torq 45g, con 28.8g di carboidrati (lo trovi anche su amazon).
Se invece si vuole scegliere tra un’ampia gamma di buoni prodotti, consigliamo la linea dell’Enervit. Quest’ultimi sono controllati da laboratori indipendenti per verificare l’assenza di sostanze dopanti; potete trovare l’elenco dei prodotti controllati su Cologne list. Della stessa marca è di recente uscita la il gel della linea C 2:1 pro (utilizzata nel ciclismo professionistico) con all’interno 40 grammi di carboidrati per gel nel rapporto 2/1 maltodestrine/fruttosio.
Ricordo che i gel è consigliabile prenderli in concomitanza con acqua (per ridurre l’osmolarità del prodotto) e che la quantità di carboidrati tollerabile può variare da soggetto a soggetto (è comunque migliorabile con l’abitudine/allenamento); per approfondire consiglio di leggere il nostro capitolo train the gut.
INTEGRATORE DA BORRACCIA FAI-DA-TE
La borraccia è sicuramente più comoda per i ciclisti, triatleti (nella frazione in bici) e tutti quei runner che corrono gare (o allenamenti) in regime di autosufficienza, come i Trail Lunghi. Inoltre, in alcune maratone viene data la possibilità di piazzare ad un determinato rifornimento (fornendola prima della partenza all’organizzazione) la propria borraccia personalizzata. Ma partiamo subito con una ricetta fai-da-te per un integratore fatto con ingredienti da cucina: per prepararlo, oltre all’acqua, serve
Una fonte energetica: va benissimo lo zucchero da cucina. Per una borraccia da mezzo litro, utilizzarne circa 20-30 grammi (in ogni modo, mai oltre i 40-50 grammi).
Un aroma naturale: che può essere una quota a piacere di succo al 100% (meglio se proveniente da spremuta) di agrumi (limone, arancia e/o pompelmo). È da tenere in considerazione che 100 ml di succo di agrumi, possono contenere dai 7 agli 12 grammi di carboidrati. Di conseguenza, se la bevanda preparata sarà per metà composta da succo, in essa saranno già presenti circa 25 grammi di carboidrati.
Sale da cucina: questo può essere aggiunto se lo sforzo dura più di 4 ore; in ogni modo da alcuni è consigliato anche per durate inferiori, anche per dare maggiore sapore alla bevanda. Visto che in un grammo di sale sono presenti circa 0.4 grammi di sodio, in mezzo litro di acqua è sufficiente metterne meno di un grammo (perché servirebbero circa 0.3 grammi di sodio). Tenendo in considerazione che un cucchiaino raso di sale sono circa 7 grammi, è sufficiente metterne meno di una punta. Molti consigliano di utilizzare il sale marino integrale, perché oltre a sodio e cloro, contiene un maggior spettro di minerali.
Ovviamente saranno l’aroma naturale (cioè il succo utilizzato) e la sua quantità a determinare la differenza in termini di gusto tra un composto e l’altro; utilizzare più agrumi, permette di diversificare la quantità di Sali minerali. Ricordo che il gusto è particolarmente importante, perché facilita l’assunzione del prodotto. Ultimo elemento importante è che questo composto va tenuto in frigo e possibilmente consumato entro 24 ore. Scopri inoltre come sia importante anche il tipo di borraccia utilizzata.
POLVERI DA METTERE NELLA BORRACCIA
Le caratteristiche non sono ovviamente dissimili da quelle dei gel, con l’unica differenza che alcuni ingredienti (addensanti, gelificanti, correttori di acidità e conservanti) non sono necessari. L’offerta presente in commercio è talmente vasta che è impossibile analizzarli tutti, ma tenendo in considerazione le stesse linee guida dei gel e togliendo gli ingredienti non necessari (addensanti, gelificanti, correttori di acidità e conservanti), è possibile farsi un’idea della qualità del prodotto. È lecito immaginarsi che una buona marca proponga buoni prodotti, ma l’offerta è talmente vasta, che riportiamo alcuni esempi sotto per chiarire il tipo di scelta che andrebbe fatta.
MALTODESTRINA DELLA MYPROTEIN: tenendo conto della serietà della casa produttrice, a mio parere il miglior prodotto in termini di qualità/prezzo per sforzi inferiori alle 2h30’-3h. Andando a vedere l’etichetta, è possibile notare che l’unico ingrediente sia la maltodestrina, cioè un ottimo carboidrato complesso da utilizzare durante lo sforzo. È da apprezzare lo sforzo della ditta produttrice, che si limita ad inserire l’ingrediente più importante, tralasciando tutti gli additivi utili per la “forma”, ma non per la “sostanza”. Unico difetto ovviamente è il gusto, in quanto la polvere è senza aroma; aggiungendo un po’ di succo di agrumi (tenendo in considerazione che questo apporta di per sé una piccola quantità di carboidrati) a piacere, è possibile creare una miscela anche gradevole da bere. La quantità di maltodestrina per borraccia (mezzo litro) è di circa 20-30 grammi considerando di non andare oltre i 40-50 grammi (compresi i carboidrati del succo).
Ma è possibile “trasformarlo” anche in composto per sforzi superiori alle 2 ore e 30’?
Ovviamente sì, con l’aggiunta di qualche ingrediente. Affinchè possa essere utile per durate superiori è necessario che contenga dei Sali ed altri tipi di carboidrati (per sfruttare diversi meccanismi di assorbimento di questi). Per i sali è sufficiente aggiungere la spremuta di un succo di un limone e poco più di un grammo di sale marino integrale (una punta di un cucchiaino).
Per quanto riguarda l’inserimento di un ulteriore carboidrato, è sufficiente utilizzare del fruttosio da cucina, che si trova sugli scaffali del supermercato. Il rapporto tra maltodestrine e fruttosio presenti nella borraccia dovrebbe essere idealmente compreso tra 2:1 e 1:1; ad esempio, se si vuole utilizzare una miscela di 30 grammi di carboidrati in mezzo litro, 20 di questi dovrebbero essere di maltodestrina e 10 di fruttosio, oppure 15 di maltodestrina e 15 di fruttosio, oppure ua via di mezzo; per ridurre il rischio di problematiche intestinali, solitamente si consiglia il rapporto 2:1. Per chi invece vuole acquistare direttamente un prodotto ideale per competizioni superiori alle 2 ore e 30’ con diversi tipi di carboidrati, Sali minerali e dal sapore gradevole, consigliamo l’ISOCARB 2:1 pro dell’Enervit.
Attenzione al biossido di Silicio: questo additivo (sigla E551) è utilizzato come antiagglomerante. In altre parole, evita che si formino dei grumi nella polvere del prodotto; attualmente l’EFSA sta eseguendo approfondimenti sulla tossicità, in particolar modo per comprendere quale possa essere la dose giornaliera accettabile.
ALIMENTI SOLIDI e BARRETTE
Questi sono utilizzati nella prima parte di gare molto lunghe, soprattutto in bici, quanto l’intensità è sufficientemente bassa da permettere la digestione anche di componenti solidi. Anche in maratone e Trail, alcuni utilizzano barrette, biscotti o tipi di frutta particolarmente adatti a queste situazioni, ma è sicuramente la soggettività a orientare l’atleta verso un tipo di alimento piuttosto che l’altro. Quindi non ci sbilanciamo più di tanto nel dare consigli per questa caratteristica di prodotti, se non lo stare attenti al tipo di additivi utilizzati, al fatto che il contenuto calorico sia prevalentemente fornito dai carboidrati e ad ingerirli insieme ad una giusta quantità d’acqua.
Se si vuole optare per una barretta (per comodità di assunzione) è da prestare attenzione al fatto che molte di quelle di nuova generazione (anche quelle con la dicitura “barretta energetica”), sono orientate prevalentemente a fornire anche un apporto proteico sostanzioso, che durante le gare di endurance può rivelarsi in parte deleterio, perché andrebbe ad appesantire ulteriormente la digestione. Per questo motivo, elenchiamo sotto le caratteristiche che dovrebbe avere una barretta energetica da assumere in gara:
Soggettivamente non deve far venir troppa sete, deve essere facile da digerire e dal sapore gradevole.
Recensioni soddisfacenti degli utenti che l’hanno già utilizzato: oggi tutti gli e-commerce che vendono questa tipologia di prodotti mettono a disposizioni i feedback dei clienti.
Il macronutriente principale devono essere i carboidrati, con quote minori di proteine e grassi.
Attenzione agli additivi e agli ingredienti dannosi: per conferire consistenza e gusto, alcuni prodotti hanno al loro interno sostanze che andrebbero evitate; queste (che andremo ad elencare), peggiorano la qualità del prodotto! Leggendo le etichette, tra gli ingredienti da evitare (soprattutto tra i grassi idrogenati) ricordiamo le seguenti diciture: grassi vegetali idrogenati, grassi vegetali, oli idrogenati, olio di colza, grasso di palma, olio di palma, olio di cocco e margarina.
Tra le soluzioni migliori consigliamo il CARBO BAR C2:1 pro dell’Enervit; in soli 45 g di barretta sono concentrati 30g di carboidrati garantendo un’elevata densità energetica ad ogni morso, richiedendo quindi meno tempo per masticare. Inoltre è un prodotto approvato dalla Cologne list®, che garantisce l’assenza di sostanze ed impurità ad effetto dopante all’interno del prodotto; questo testimonia l’elevata qualità delle materie prime utilizzate. Non a caso la linea C2:1proè stata utilizzata anche da squadre ciclistiche World Tour.
Ottima alternativa è la BETA FUEL della SiS (46 g di carboidrati in 60g di prodotto); anche questa è testata (Informed sport) per garantire l’assenza di sostanze dopanti ed è utilizzata da squadre ciclistiche World Tour; anche in questo caso il rapporto maltodestrine/fruttosio (1/0.8) rientra nel range ottimale considerato per sforzi superiori alle 2h30’/3h.
Chiudiamo il paragrafo con un’ultima raccomandazione; quando ci si alimenta con cibi solidi in gara, è fondamentale una corretta masticazione (e che le barrette siano facilmente masticabili), per permette al cibo di arrivare nello stomaco e nell’intestino con un grado di digestione elevata, rendendo meno laboriose le fasi successive che portano all’assimilazione dei macronutrienti.
Per facilitare questo processo oggi si trovano in commercio anche gelatine, cioè “vie di mezzo” tra i gel e le barrette; a mio parere la migliore è la CARBO JELLY 2:1 pro dell’Enervit.
Aggiornamenti ed ultimi studi
Attualmente la ricerca per questo tipo di prodotti è orientata ad identificare formulazioni in grado di abbandonare più velocemente lo stomaco, grazie ad una minore osmolarità o una minor capacità di stimolare i recettori dei carboidrati nel duodeno (che tendono a rallentare lo svuotamento gastrico); il tutto ovviamente senza incrementare il rischio di effetti collaterali.
Tra questi ne citiamo 2 che hanno raggiunto consensi di rilevanza in bibliografia internazionale (studi e ricerche); il primo è l’Hydrogel, nel quale viene aggiunto alginato di pectina e sodio alla normale formulazione di carboidrati. Il secondo sono le ciclodestrine altamente ramificate, un tipo di carboidrato che origina dall’amido di mais ceroso processato da 2 enzimi (α-amilasi e α-1→4-glucan-branching enzyme).
È stato visto che entrambi riducono il rischio di problematiche intestinali, probabilmente perchè favoriscono lo svuotamento gastrico; potete approfondirne l’utilizzo leggendo il nostro post dedicato all’hydrogel ed alle ciclodestrine.
CONCLUSIONI
Avere le idee chiare quando si deve acquistare un integratore da utilizzare in gara è fondamentale, oltre al sapere quanto e quando assumerlo. Anche aspetti come la comodità di utilizzo, l’assenza di additivi da evitare e la serietà della casa produttrice contribuiscono ad orientare la scelta verso un prodotto rispetto a l’altro.
Andando allapagina principale dedicata alla nutrizione, potrai trovare l’indice delle nostre risorse su alimentazione ed integrazione. Se invece vuoi rimanere aggiornato sulle mie pubblicazioni e sugli aggiornamenti dei vari articoli, collegati al mio profilo Linkedin.
Autore dell’articolo: Melli Luca (melsh76@libero.it), istruttore Scuola Calcio A.S.D. MT1960 ed Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto.
In gare che superano una certa durata, un’adeguata idratazione comprendente una giusta quota di carboidrati (e in alcuni casi anche elettroliti), può aiutare a limitare gli effetti della fatica, soprattutto quando è ottimizzata la distribuzione dello sforzo. Ma oltre che distanza (o tempo) è necessario introdurre carboidrati e quali sono i prodotti migliori sul mercato? E i Sali minerali? Quanto bisogna bere in gara? In questo post cercheremo di approfondire le linee guida* per l’integrazione e l’idratazione nelle gare di endurance, partendo sempre da presupposti scientifici che hanno poi trovato riscontro nell’applicazione pratica.
*ATTENZIONE: le informazioni contenute sul nostro blog hanno esclusivamente scopo informativo, e in nessun caso possono costituire o sostituire parere e prescrizione medica e specialistica. Si raccomanda di chiedere sempre il parere del proprio medico curante e/o di specialisti prima di assumere integratori!
Fatica, Idratazione e Disidratazione
La fatica è un fenomeno multifattoriale e, negli sport di resistenza, può essere influenzata dalle condizioni ambientali, dalla disidratazione e dalla deplezione di glicogeno (carboidrati endogeni, cioè stoccati all’interno del nostro corpo), cioè variabili importanti che l’atleta deve conoscere e saper gestire.
Le prime evidenze sperimentali (da laboratorio) sulla disidratazione, hanno dimostrato che in climi freddi e temperati (fino a 22°) fino al 2% di perdita di massa corporea non è nociva per la performance, mentre in ambienti particolarmente caldi (oltre 30°) tale perdita può essere compromettente per la performance e la salute (Shirreffs 2005). A questo aspetto, è da aggiungere il concetto di Massima disidratazione involontaria che spiegheremo brevemente: durante uno sforzo fisico, è possibile perdere (in condizioni eccezionali di caldo elevato ed intensità fisica massimale) fino a 1.8 l/h (litri di sudore all’ora), ma la massima velocità con il quale l’organismo è in grado di reidratarsi (assorbimento d’acqua nell’intestino) è di circa 1-1.5 l/h.
Tenendo in considerazione che sottosforzo è difficile bere tanto senza problemi gastrointestinali, si è giunti alla conclusione che in linea di massima (in ambienti caldi e discipline di lunga durata) non si riesce a bere più 1 litro di acqua all’ora. Queste considerazioni teoriche, hanno portato a formulare linee guida eccessivamente allarmanti, in cui veniva consigliato di bere il più possibile sin da prima che iniziasse la gara, considerando che alla comparsa dello stimolo della sete, il grado di idratazione era inevitabilmente compromesso. Questo ha portato, in gare molto lunghe, a casi di iponatremia sintomatica (vedi immagine sotto) compresi 14 atleti alla Maratona di Londra del 2003. Nel 2011 Kipps e colleghi, pubblicarono uno studio che rilevò che il 12.5% dei maratoneti da loro testati durante la Maratona di Londra riportarono segni asintomatici di iponatremia, dovuti al fatto che avevano bevuto troppa acqua e troppo pochi sali minerali.
Iponatremia e disidratazione, sono quindi 2 condizioni fisiologiche estreme ed opposte, dovute a comportamenti eccessivi (bere solo troppa acqua / bere troppo poco). Nel prossimo paragrafo vedremo, quali sono le linee guida attuali dettate maggiormente dal buon senso e dalle ultime ricerche sperimentali effettuate su atleti “sul campo”.
Come riconoscere lo stato di idratazione a riposo
Gli effetti nocivi della disidratazione si esplicano prevalentemente con un aumento della condizione di fatica, fino ad arrivare a conseguenze anche per la salute (come il colpo di calore); i segni e sintoni della disidratazione sono amplificati in climi caldi.
Fortunatamente, l’organismo acclimatandosi è in grado di incrementare la propria volemia (quantità di sangue nel sistema cardiocircolatorio), tollerare meglio lo sforzo in climi caldi, dare un inizio precoce alla sudorazione (evitando di accumulare calore) ed espellere meno sali con il sudore. Inoltre, lo stoccaggio e l’ossidazione dei substrati energetici rilascia e produce una quantità endogena di acqua superiore al litro in sforzi che vanno ad esaurire importanti scorte di glicogeno. Risulta quindi fondamentale, per l’atleta, comprendere come misurare in maniera oggettiva il proprio stato di idratazione al fine di individuare le giuste strategie per prevenire di disidratarsi.
Il protocollo WUT è probabilmente il più semplice che permette di comprendere, a riposo, se si è disidratati (vedi immagine sotto); infatti è estremamente importante iniziare la competizione (e l’allenamento) in uno stato di idratazione ottimale, altrimenti ne risentirebbe il rendimento atletico. Potete approfondire meglio il protocollo WUT nel nostro post dedicato all’idratazione.
Gli ultimi approfondimenti scientifici legati alle discipline di resistenza e disidratazione hanno permesso di constatare che in condizioni reali (cioè atleti in gara, e non soggetti sedentari in laboratorio come venne fatto inizialmente), una perdita pari o inferiore al 4% del peso corporeo non andava a penalizzare la performance (Goutlet 2013). Ulteriori revisioni bibliografiche dello stesso autore (Goutlet 2011) rilevavano come il bere per la sete che si ha, fosse la soluzione migliore per ottenere performance migliori in prove ciclistiche a cronometro di 90’ circa. Queste considerazioni, hanno portato a riformulare il paradigma del reintegro dei fluidi in gara secondo le seguenti linee guida (Goutlet 2012):
Durante sforzi inferiori all’ora, è ragionevole ipotizzare che la disidratazione non influenzi la performance, ma è comunque importante bere per placare l’eventuale sensazione di sete ed evitare l’ipertermia.
Durate sforzi di durata superiore all’ora, bere per la sete che si ha; possibilmente (aggiungo io) bevande isotoniche, con carboidrati ed eventualmente sali (vedi prossimo paragrafo).
Per evitare che la sete subisca alterazioni dovute ad altri fattori, è comunque consigliabile adottare strategie di re-idratazione in gara che permettano di perdere non più del 2-3% del proprio peso corporeo.
Nel 2007, l’American College of Sports Medicine indicò come bere per la sete che si ha una quantità compresa tra 4-0.8 litri ogni ora potrebbe essere il punto di partenza per l’individualizzazione di protocolli per allenamento/competizioni di durata.
Di conseguenza, l’individualizzazione dei protocolli di idratazione in gara diventa essenziale in sforzi di ultraendurance e di una certa durata in ambienti caldi. Il tutto andrebbe sperimentato prima in allenamento per non trovarsi impreparati in competizione.
Quello che viene sconsigliato, è di esagerare con il bere e di prendere peso durante la gara; questo potrebbe portare a casi di iponatremia; in altre parole, gli eccessi vanno sempre evitati! Per evitare l’iponatremia in gare particolarmente lunghe, può risultare significativa anche la presenza di Sali nei fluidi che si ingeriscono; lo vediamo nel prossimo paragrafo.
Quali minerali è necessario aggiungere, ed in quali condizioni?
Come abbiamo visto sopra, in caso di sforzi particolarmente prolungati l’ingestione di molta acqua senza sali minerali può dare origine a casi di iponatremia; per questo motivo, in gare ed allenamenti molto lunghi è consigliabile ingerire anche sali minerali.
Il sodio è il minerale maggiormente presente nella sudorazione; è comunque difficile dare linee guida semplici, in quanto attualmente viene consigliata l’aggiunta di sodio se sono presenti queste 3 condizioni (McCubbin):
Lo sforzo è superiore alle 4 ore
Si beve per ripristinare più del 70% del sudore perso
La perdita di sodio è superiore a 1 grammo ogni ora
Potete benissimo intuire quanto sia difficile sapere (in assenza di personale ed esami qualificati) la necessità o meno di integrare con questo minerale.
Fortunatamente è possibile semplificare il tutto partendo da altri presupposti; infatti, una moderata aggiunta di sodio è comunque consigliata anche in sforzi più brevi per migliorare il sapore della bevanda e mantenere l’osmolarità del sangue (McCubbin).
In ogni modo, con la dieta attuale è difficile ipotizzare si possa andare incontro a carenze di sodio in quanto questo minerale è stoccato in alcune parti del corpo per essere rilasciato all’occorrenza.
Con il dovuto buon senso, dalle precedenti considerazioni (che provengono dalla bibliografia internazionale) è possibile quindi ipotizzare quanto scritto nell’immagine sotto.
Quando necessario (ad esempio quando si prepara autonomamente la borraccia) le vecchie linee guida consigliavano circa 0.5-1 grammo di sodio per litro d’acqua, corrispondenti a 1-2 grammi di sale da cucina. Attualmente si tende ad incoraggiare una maggiore individualità nei protocolli; la personalizzazione va assolutamente effettuata (insieme a personale medico) per chi soffre di ipertensione.
Altri minerali inseriti negli integratori idrosalini sono Cloro, Potassio e Magnesio, ma non ne è mai stata dimostrata la necessità; per chi volesse un prodotto estremamente comodo per aggiungere sali (senza aggiunta di calorie) nella borraccia, consigliamo le compresse High5 o il Go Hydro della SiS; entrambi sono prodotti di qualità di marche estremamente serie.
Ricordo che non è mai stato dimostrato che l’aggiunta di Sali possa ridurre l’incidenza dei crampi.
Cosa mettere dentro la borraccia
Nel post dedicato al metabolismo dei carboidrati, abbiamo visto come le fonti di carboidrati endogene ed esogene (glicogeno, glucosio ed altri zuccheri) siano fondamentali per sostenere la spesa energetica muscolare(cioè produrre ATP, vedi immagine sotto); non solo, nel paragrafo “I grassi bruciano al fuoco dei carboidrati” è stato approfondito come anche il metabolismo degli acidi grassi venga particolarmente inibito in condizioni di carenza di glucosio/glicogeno.
Nelle competizioni di durata risulta quindi fondamentale presentarsi alla partenza con quote adeguate di glicogeno muscolare; quando superano una certa durata, risulta anche fondamentale l’integrazione con carboidrati in gara per evitare che il glucosio ematico (e di conseguenza quello muscolare) scenda sotto livelli tali da far comparire i sintomi della fatica. Ma quanti carboidrati è necessario ingerire in gara? Oltre quale durata dello sforzo è consigliabile inserire carboidrati nel proprio piano di integrazione in gara?
Le linee guida più attuali (Burke 2021), riportano quanto segue:
In sport massimali della durata inferiore a 45’, l’integrazione è opzionale, ma è difficile ipotizzare possa portare benefici.
In discipline della durata compresa tra 45-75’ è consigliabile una piccola quantità di circa 20 grammi/ora (qualsiasi tipo di carboidrato)
Se la durata è compresa tra le 1-2.5 ore, è consigliabile ingerire 30-60g/h indipendentemente dal tipo di carboidrato.
Quando si superano le 2h30’-3h invece, l’ideale è ingerire 70-90g/h, o anche di più (lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo); in questo caso è assolutamente necessario utilizzare carboidrati che utilizzano diversi meccanismi di assorbimento intestinale, come fruttosio + maltodestrine, oppure fruttosio + altri polimeri del glucosio. Attualmente a livello sperimentale è stata trovata come un rapporto fruttosio/maltodestrine di 0.5-1/1 (cioè 0.5-1 grammi di fruttosio ogni grammo di maltodestrine) (Rowlands et al 2015).
Per chi pratica sport di endurance sa che non è facile seguire le indicazioni per gli sforzi superiori alle 2h30’-3h, cioè di 70-90 grammi di carboidrati ogni ora.
Malgrado questo, oggi alcuni arrivano anche ad ingerirne 120 g/h. A livello professionistico è possibile in quanto questa tipologia di atleti è seguita da staff in grado di individualizzare l’apporto gradualmente in maniera individualizzata.
Ma per chi fa sport a livello dilettantistico-amatoriale è molto più difficile. In ogni modo, pur mantenendo l’individualizzazione dell’integrazione, è giusto sapere che è possibile migliorare la performance (oltre le 3 ore) ottimizzando l’assunzione di carboidrati in base alle proprie caratteristiche; abbiamo trattato in maniera approfondita nel nostro articolo train the gut, nel quale abbiamo visto come con un approccio graduale sia possibile contribuire a ridurre il calo nel finale di gara.
Ma prima continuiamo a vedere quali sono gli ingredienti per un integratore idrosalino ideale.
Quali carboidrati scegliere?
Questo aspetto rappresenta sicuramente una delle variabili più ricercate in ambito sperimentale, soprattutto da parte delle case produttrici di integratori. La formulazione ideale (quando si va oltre le 2h30’-3h di sforzo) prevede l’utilizzo di carboidrati che facilitino lo svuotamento gastrico e permettano un rapido assorbimenti intestinale; per soddisfare queste necessità, una concentrazione inferiore al 6-8% (cioè 60-80 grammi di carboidrati per litro) è l’ideale.
Qualsiasi tipo di integrazione è comunque da testare prima in allenamento, per comprenderne la tolleranza.
Gli zuccheri (carboidrati) più utilizzati sono miscele di fruttosio + polimeri del glucosio (maltodestrine, destrine cicliche, ecc.); le maltodestrine (che sono formate da catene di glucosio) vengono rilasciate più velocemente dallo stomaco rispetto al glucosio libero, e di conseguenza entrano in circolo più velocemente. Il fruttosio invece utilizza meccanismi di assorbimento diversi dal glucosio e, non entrando “in competizione”, permette l’ingresso nel sangue di più carboidrati contemporaneamente.
In base alle ricerche pubblicate fino ad ora (Rowlands et al 2015, Podlogar et al 2022) è possibile affermare come il rapporto ideale tra porzione di fruttosio e maltodestrine sia compreso tra 0.5/1 e 1/1 (fruttosio/maltodestrine). Per fare un esempio, se integro con 60g di carboidrati, posso usare una formula “20g fruttosio/40g maltodestrine”, “30g fruttosio /30g maltodestrine” o una via di mezzo.
Di norma, viene consigliata la prima formulazione (20 fruttosio, 40 maltodestrine) per chi è a rischio di problematiche intestinali.
Ad esempio, la nuova linea Enervit C2:1pro (utilizzata anche da team professionistici di ciclismo) utilizza proprio un rapporto in cui le maltodestrine sono il doppio del fruttosio. Nel nostro post dedicato agli integratori a base di carboidrati, potete trovare i prodotti (gel, polveri, barrette, ecc.) più adeguati alle varie necessità.
La caffeina è uno dei pochissimi integratori riconosciuti dal CIO come in grado di poter offrireguadagni marginali della performance, in particolar modo negli sport di endurance. Attualmente (nel 2023) non è considerata doping, quindi (seguendo attentamente le avvertenze) è possibile consumarla prima della gara o durante.
Ma attenzione, è necessario prima sapere i meccanismi d’azione di questa sostanza per capire chi può trarne beneficio, in che modo, e quali sono le controindicazioni all’assunzione; è quello che vedremo in questo capitolo.
Malgrado i meccanismi d’azione della caffeina siano diversi, attualmente è possibile affermare come quello principale sia quello di ridurre la percezione della fatica e del dolore durante lo sforzo (Burke 2021). È quindi evidente come gli effetti possano essere minori quanto più è elevata la motivazione del soggetto; attenzione, l’abitudine all’utilizzo ne riduce l’effetto. Infatti, la caffeina è presente in diverse bevande (caffè, cola, energy drink, ecc.), oltre che in alcuni integratori.
Le risposte (benefici e gli effetti avversi) differiscono molto tra soggetto e soggetto, e non solo in base all’abitudine; per questo motivo è importante comprenderne i risultati su ognuno di noi, i dosaggi ottimali per avere effetti ergogenici e la presenza di questa nelle bevande che si consumano giornalmente.
La dose ritenuta efficace è compresa tra 3-6 mg/Kg di peso corporeo, da assumere (o distribuire) preferibilmente 60’ prima dello sforzo, o anche durante. Oltre questa quantità si rischia che gli effetti avversi siano maggiori dei benefici; questo è il motivo per il quale è da considerare anche la caffeina consumata durante tutto il giorno, e non solo quella prima-durante lo sforzo; a questo link trovate il contenuto di caffeina nelle bevande più comuni.
In una revisione dell’International society of sports nutrition (Guest et al 2021) emerge come in media possa portare un beneficio del 2.3% sulla performance; ma attenzione, questo dato considera studi effettuati su differenti discipline, distanze ed atleti di livello diverso; per la corsa, viene indicato un miglioramento medio dell’1.1% (Wang et al 2023).
È comunque da far notare che singoli studi hanno trovato benefici leggermente migliori, ma altri anche peggioramenti della prestazione; questo testimonia come sia necessario comprendere la risposta individuale a questo tipo di integrazione prima di utilizzarlo in competizione.
Come accennato sopra, è presumibile che gli effetti siano maggiori per quei soggetti non abituati a consumare caffeina; per “effetti” si intendono sia i potenziali benefici che gli effetti avversi. Per i consumatori abituali viene consigliato di astenersi dalla caffeina per 4-6 giorni prima della competizione per ridurre questo fenomeno di assuefazione.
Ricordo che la caffeina ha anche effetti diuretici, quindi è da prestare attenzione anche al clima ed alla reidratazione.
Per gli atleti che non hanno controindicazioni e vogliono ridurre la probabilità di effetti collaterali, viene consigliato di integrare con la dose minima (3 mg/Kg) (Gomes de Sousa et al 2022).
Ma in che forma è più utile assumere caffeina prima o durante la gara?
Oggi i gel ed integratori a base di carboidrati da assumere in competizione sono disponibili nella versione con e senza caffeina. Se prima della gara si consuma il classico espresso, è da considerare che contiene circa 80 mg di caffeina.
Sono presenti anche formulazioni in compresse o caramelle; per questo tipo di prodotti è da fare particolare attenzione al fatto di utilizzare integratori di marche estremamente affidabili. Infatti, esistono pubblicazioni anche recenti (Duiven et al 2021, Kozhuharov et al 2022) che hanno individuato all’interno di integratori sostanze proibite non dichiarate che possono dare origine alla positività in un test antidoping e/o dosaggi eccessivi di caffeina (Helle et al 2019). Nel nostro post dedicato all’argomento trovate come scegliere la marca di integratori.
Temperatura ed osmolarità dei liquidi
In ambienti caldi è importante che l’acqua sia fresca (mai comunque inferiore ai 4°C), soprattutto per placare la sete. È comunque sconsigliabile bere troppo acqua alla volta per evitare problemi gastrointestinali. L’osmolarità invece dipende da quello che c’è sciolto nei liquidi che vanno nell’intestino; più sostanze sono disciolte e maggiore è l’osmolarità. Visto che l’osmolarità plasmatica è di circa 280-300 mOsm/L, è importante che nell’intestino arrivino i fluidi con un’osmolarità inferiore, altrimenti i liquidi verrebbero assorbiti troppo lentamente. Se l’acqua è la bevanda ipotonica per eccellenza (cioè con osmolarità più bassa), generalmente tutte le altre formulazioni a base di carboidrati/Sali minerali da assumere in gara hanno un’osmolarità bassa (basta controllare sull’etichetta che ci sia scritto “ipotoniche”). Inoltre, anche se i gel da assumere in gara sono particolarmente concentrati, una volta ingeriti insieme a dell’acqua, nell’intestino assumono probabilmente una connotazione ipotonica (cioè a bassa osmolarità), cioè ideale per l’assorbimento.
Altre sostanze presenti
Molti prodotti finalizzati all’integrazione energetica, hanno al loro interno anche le Vitamine del gruppo B. In ogni modo (come evidenziato anche dall’ACSM) non esistono evidenze scientifiche a supporto della necessità di utilizzare questo tipo di ingredienti; è invece molto importante seguire una dieta adeguata e completa.
Allo stesso modo, altri ingredienti come elementi ad azione antiossidanti (vitamine, Coenzima Q-10, selenio, ecc.), erbe e ginseng, non apportano nessun beneficio, ma (nelle dosi inserite) neanche effetti deleteri.
Altre sostanze solitamente inserite in questi prodotti sono i correttori d’acidità come l’acido citrico; quest’ultimo, oltre a garantire la sicurezza alimentare del prodotti (acidificando la sostanza ed impedendo la formazioni di batteri), funziona anche da addensante (soprattutto per le formulazioni in gel).
Ulteriori additivi che servono per dare gusto ai prodotti sono gli emulsionanti e gli aromi naturali; ricordiamo che questi ultimi elementi sono molto importanti, perché il sapore (possibilmente gradevole) di una bevanda, aiuta a berne una quantità sicuramente più adeguata. Nei gel poi vengono anche aggiunti agenti gelificanti (come la Gomma di Cellulosa) per dare consistenza al prodotto.
Altri ingredienti come i coloranti ed edulcoranti (dolcificanti) sono meno necessari e peggiorano la qualità del prodotto.
Ma le borracce sono tutte uguali?
La risposta è NO; spesso siamo portati a scegliere le borracce da utilizzare in gara in base alla comodità di utilizzo.
Questo è corretto, ma si tendono a trascurare le caratteristiche dei materiali e la loro manutenzione (pulizia); infatti, alcuni materiali possono rilasciare interferenti endocrini in base alla loro costituzione, usura e tipologia di lavaggio.
Gli interferenti endocrini sono sostanze che (con le dovute semplificazioni) imitano o bloccano gli ormoni del corpo, causando possibili danni alla salute. La normativa europea di regolamentazione di questi materiali offre alcune certezze, ma necessita di ulteriori sviluppi per una migliore protezione della salute umana e dell’ambiente.
Di conseguenza, sono necessari alcuni semplici accorgimenti per la scelta e la manutenzione di questi accessori; potete leggerli nel nostro post dedicato alle borracce per runner.
Quali sono i migliori prodotti?
Il primo aspetto fondamentale è quello di controllare sull’etichetta che gli ingredienti siano conformi alle nostre esigenze specifiche. Altro parametro importante è il rapporto qualità/prezzo; nel post dedicato alla qualità degli integratori, abbiamo visto quali sono i parametri che definiscono questo rapporto.
Per questo motivo consigliamo i prodotti della Myprotein, ma sul mercato esistono anche altri ottimi prodotti come la linea C2:1 pro dell’Enervit. Ultimo fattore da considerare, ma non per questo meno importante, è il gusto di una bevanda; come abbiamo detto sopra, più questo è gradevole e più sarà facile berne a sufficienza. Per saperne di più leggi il nostro post dedicato ai migliori integratori a base di carboidrati.
Le domande più frequenti
In questo capitolo riportiamo i dubbi e i quesiti che possono insorgere nell’affrontare, all’atto pratico, questo tipo di integrazione.
È POSSIBILE ARRIVARE A 120 g/h DI CARBOIDRATI? COMPORTA REALI BENEFICI? Questa domanda riguarda ovviamente discipline e sforzi che superano le 2h30’-3h; si parla quindi di ciclismo, maratona, trail running, ecc. Il gruppo di ricerca di Aitor Viribay ha prodotto i primi studi sull’argomento; in un’intervista ha dichiarato come a livello professionistico, se adeguatamente allenati, gli atleti delle maggiori corse mondiali (Giro de Italia, Tour de France, Hawaii Ironman, Berlin Marathon) utilizzano già strategie simili. Ma integrare con quantità prossime a 120 g/h è realmente efficace? Lo stesso gruppo di ricerca ha effettuato 2 pubblicazioni (Viribai et al 2020, Urdampilleta et al 2020) in cui è stata utilizzata questa strategia, confrontandola con dosaggi orai minori (60 e 90 g/h); il contesto era quello di una mountain marathon. Gli atleti che integrarono in gara con la quota maggiore di carboidrati (120 g/h) percepirono meno fatica durante la gara, e recuperarono più velocemente lo sforzo dopo 24h. È comunque da precisare che questi runner furono “allenati” a tollerare questa quota di carboidrati con protocolli in allenamento, che prevedevano il consumo superiore di 90 g/h almeno 2 volte a settimana nelle 4 settimane che precedevano la gara. Infatti, il rischio di questa pratica è l’insorgenza di disturbi gastrointestinali durante lo sforzo; a mio parere, non è sufficiente abituarsi in allenamento, ma anche avere un microbiota intestinale resiliente; potete approfondire leggendo il capitolo Train the gut. Le considerazioni fatte sopra valgono ovviamente per atleti professionisti seguiti da staff. Per chi fa sport a livello amatoriale, credo sia importante essere a conoscenza di quanti carboidrati si consumano abitualmente in gara; probabilmente molti, anche in gare lunghe (oltre le 2h30’-3h), arrivano a 30-60 g/h, sotto anche a quello che è il “vecchio” limite di 90 g/h. Una volta acquisita questa consapevolezza, è possibile valutare se incrementare gradualmente la quantità da assumere in competizione abituandosi prima in allenamento grazie alle indicazioni date sopra; è probabile che ciò comporti dei benefici in termini prestativi se si riescono ad evitare gli effetti avversi.
È NECESSARIO INTRODURRE PROTEINE O AMINOACIDI IN GARA? NO! In gare particolarmente lunghe, è stato visto che la quota energetica per sostenere lo sforzo coperta dagli aminoacidi (ottenuti per “disgregazione” delle proteine muscolari) può raggiungere il 15%. Questo aveva portato diverse case produttrici di integratori ad introdurre piccole quote di proteine o aminoacidi all’interno dei gel. L’errore di fondo di questo concetto (evidenziato anche dalla review di van Loon 2014), sta nel fatto che il corpo utilizza gli aminoacidi a scopo energetico quando non ha carboidrati a sufficienza (glicogeno e glucosio); per questo motivo, è molto più importante fornire quote adeguate di carboidrati (seguendo le normali linee guida), piuttosto che usare gli aminoacidi. Non solo, sostanze azotate come proteine ed aminoacidi, per essere utilizzate a scopo energetico, devono subire un processo di deaminazione che comporta successivamente un accumulo di ioni ammonio, che non fa altro che incrementare la condizione di fatica.
E’ MEGLIO USARE I GEL O LA BORRACCIA? Ovviamente dipende molto dall’aspetto logistico. Ad esempio un maratoneta (sia in gara che in allenamento) troverà sicuramente più comodo rifornire la parte relativa ai carboidrati e ai sali portandosi dietro i gel che sono meno ingombranti. Per quanto riguarda l’acqua, potrà bere tranquillamente quella dei rifornimenti (ricordiamo che un bicchiere sono circa 200 ml) o delle fontane (in allenamento). Condizione diversa è se ci si trova ad allenarsi o gareggiare in condizioni di carenza di rifornimenti (come nei trail in semi-autosufficienza). Per queste condizioni, esistono portaborracce o camelbak che permettono di portarsi dietro rifornimenti idrici e glucidici in maniera comoda e poco ingombrante. Per chi va in bicicletta invece è più facile usare la borraccia, prestando attenzione al fatto che se si ha necessità di integrare in momenti specifici (finale di gara) con carboidrati, i gel sono estremamente più comodi.
SONO DA EVITARE GLI ALIMENTI SOLIDI IN GARA? In gare di corsa sono più che mai sconsigliati, in quanto richiedono più tempo per essere digeriti e possono appesantire l’organismo se è impegnato in sforzi di natura massimale. In ogni modo, in gare particolarmente lunghe (come Ultramaratone o Ultratrail) con diversi tratti in cui si cammina, alcuni atleti preferiscono adottare una strategia di integrazione che sfrutta anche in piccola parte alimenti solidi come barrette, frutta essiccata, biscotti secchi, ecc. L’importante è l’abitudine ad utilizzare questo tipo di approccio e che questi siano presi in piccole porzioni alla volta, che si utilizzano alimenti con poche fibre, quantità ridotte di proteine e grassi e una quota adeguata di carboidrati. Stesso discorso è possibile fare per i ciclisti che, in gare lunghe, ingeriscono nella prima parte anche cibi solidi accompagnati da abbondante acqua come panini alla marmellata o con poco prosciutto sgrassato. Quello che importa è che l’ingestione di questi alimenti venga fatto in momenti in cui l’intensità di gara è bassa (in questo modo è più facile digerirli) e la parte intensa/cruciale sia sufficientemente lontana da permettere di digerire quello che si è mangiato!
I SALI MINERALI POSSONO AIUTARE A PREVENIRE I CRAMPI? Com’è possibile leggere nel nostro post dedicato ai crampi, in linea di massima, la perdita di Sali minerali con il sudore non è da considerare una delle cause dirette di questo fenomeno. Infatti, essendo particolarmente legato alla situazione di fatica (ed avendo una profonda incidenza individuale), è più ragionevole ipotizzare che questo sia un fenomeno multifattoriale, cioè legato al fatto di svolgere uno sforzo al quale non si è adeguatamente allenati o per il quale non si ha una sufficiente resistenza muscolare locale. Un corretto allenamento e la decisione di prendere parte solo a gare alle quali si è adeguatamente preparati, è attualmente la miglior prevenzione contro i crampi! L’incidenza della perdita di Sali può essere dovuto solamente al legame che può avere questa con la fatica e la disidratazione; in questi casi, sarebbe il sodio, l’elemento principale da tenere in considerazione in un’ottica di adeguata integrazione, secondo le linee guida dei paragrafi sopra.
COME RICONOSCERE SE SONO DISIDRATATO O MENO? In qualsiasi momento del giorno è importante saper valutare il proprio stato di idratazione, soprattutto in ambienti caldi; questo non vale solamente per l’allenamento e la gara, ma per tutta la giornata. Infatti, un adeguato stato di idratazione permette di ottimizzare il recupero, oltre ad essere correlato con l’umore. Il protocollo WUT è attualmente quello più utile (anche se approssimativo) come valutazione “fai da te”. Potete approfondirlo nel nostro post dedicato alla reidratazione, nel quale troverete anche la linee guida per una corretta reidratazione dopo sforzo.
Conclusioni ed applicazioni pratiche
“Train the gut” (“allena l’intestino”) è uno degli slogan preferiti dai tecnici Americani per indicare come sia necessario abituare l’organismo a beneficiare dei rifornimenti riducendo al minimo il rischio di effetti avversi (disturbi gastrointestinali). Infatti, chi si appresta a preparare gare lunghe (soprattutto di corsa), è importante che negli allenamenti di maggiore durata, abitui l’organismo ai rifornimenti che poi andrà a fare in gara; questo permetterà di sperimentare le migliori strategie in funzione della gara. Potete trovare le indicazioni dettagliate nella seconda parte del nostro articolo dedicato a Microbiota e performance atletica.
Concludo con un ultimo importante concetto: una corretta strategia di integrazione in gara, non potrà mai essere efficace se l’atleta non è adeguatamente allenato (e in alcuni casi acclimatato) per la gara a cui prende parte: tradotto “è impensabile illudersi di concludere al meglio una gara per la quale non si è sufficientemente allenati, solo ingerendo i carboidrati in gara”. Stesso discorso vale per la distribuzione dello sforzo!
Spero, con questo lungo post, di aver fatto chiarezza su un argomento particolarmente importante per chi pratica sport di endurance. Se ti è piaciuto, condividilo sul social network che preferisci (basta usare i pulsanti qui sotto); a noi farà molto piacere e servirà per comprendere quali sono gli argomenti più seguiti del nostro blog.
Il carbo load (in Italiano “carico di carboidrati”) è una strategia essenziale negli sport di resistenza per massimizzare le scorte energetiche di carboidrati (glicogeno) al fine di ottenere elevate performance su lunghe distanze.
Ma questa pratica, che si applica in preparazione di gare lunghe, è efficace per tutti?
Qual è il protocollo preciso per ottenere i massimi benefici?
In questo post cercheremo di rispondere a queste 2 importanti domande, partendo dalle considerazioni teorico/pratiche fatte sul consumo di glicogeno.
CONSUMO E STOCCAGGIO DEL GLICOGENO
Nel precedente post abbiamo visto come il consumo di glicogeno nei muscoli è maggiore, tanto maggiore è l’intensità dello sforzo; infatti oltre ad una certa soglia di lavoro, lo sfruttamento glicogenolisi/glicolisi porta ad un impoverimento marcato del glicogeno, che è l’unica fonte energetica in grado di garantire sforzi di elevata intensità. Ad intensità medie, la risintesi dell’ATP può essere mantenuta anche grazie al glucosio ematico (glicolisi+metabolismo aerobico) e al lattato. A medio-basse intensità, l’utilizzo dei grassi a scopo energetico è comunque subordinato al metabolismo del glucosio: vedi i grassi bruciano al fuoco dei carboidrati.
Nell’immagine sopra, è possibile vedere una semplificazione del metabolismo del glucosio/glicogeno in condizioni di riposo. In questa situazione, il consumo di glicogeno (glicolisi) è inibito, mentre è attivata la sintesi di glicogeno; per questo motivo, un accumulo evidente di glicogeno è possibile solo in condizioni di risposo e se è disponibile glucosio nel sangue (ovviamente da fonti alimentari). L’accumulo avviene in diversi organi, ma in particolar modo nel fegato e nei muscoli. In questi tessuti, il glicogeno (che è formato da tante molecole di glucosio) viene stoccato in forma ramificata per mantenere l’equilibrio cellulare (in particolar modo la pressione osmotica).
ACCUMULO DELLE RISERVE ENERGETICHE MUSCOLARI
A pari livello di allenamento, per ottimizzare le proprie scorte energetiche (glicogeno) in gare lunghe, è importante adottare le seguenti strategie:
Attuare una tattica di gara in grado di non sprecare precocemente il glicogeno. Non a caso, molti record in maratona sono stati ottenuti in leggero “negative split”, cioè con una seconda parte corsa leggermente più veloce della prima.
Attuare un’adeguata integrazione di carboidrati in gara. In genere vengono consigliati circa 30 g/h (grammi/ora) per sforzi compresi tra 1-2 ore, e 60-90 g/h per sforzi della lunghezza superiore alle 2 ore. Tale soluzione è molto comoda tramite l’assunzione di gel; l’Energel elitè è sicuramente uno dei migliori prodotti (in termini di qualità prezzo) presenti in commercio. Nel caso in cui il prodotto non fosso disponibile, potete trovare valide alternative (come Gel) nel nostro post dedicato agli integratori a base di carboidrati. Chi invece preferisce gli integratori in polvere da sciogliere nella borraccia, consigliamo la Bevanda Idratante della Bulk. Per approfondire l’argomento ti invitiamo a leggere l’articolo dedicato all’idratazione ed integrazione in gara.
Iniziare la competizione con livelli adeguati di Glicogeno, attuando, nelle gare che superano i 90-120’, una dieta adeguatamente ricca di carboidrati nei giorni che precedono la gara (carico di carboidrati).
Questo post lo dedicheremo al terzo punto! Una volta approfondite le motivazioni fisiologiche di tale protocollo, passiamo ora a fare un breve accenno storico sull’argomento.
Già alla fine degli anni 60’ (Bergstrom et al 1967) si comprese che l’accumulo di glicogeno nei muscoli era maggiore, tanto più elevato era lo svuotamento di tali riserve grazie all’esercizio fisico.
Dalla figura sopra è possibile vedere come un’elevata deplezione delle scorte glicidiche, se seguita da un periodo di carico leggero (accoppiata ad una successiva dieta ricca di carboidrati), può portare ad un accumulo di glicogeno nei muscoli al di sopra dei livelli normali. Sherman et al 1981 fù il primo ad applicare in contesto pratico questo protocollo, che è salito all’attenzione degli sportivi Italiani per il mondiale di ciclismo dilettanti del 1996 a Lugano, quando 4 atleti azzurri finirono ai primi 4 posti, utilizzando per la prima volta questo tipo di abbinamento dieta/allenamento.
Nell’immagine sopra è possibile vedere l’originale protocollo di Sherman che fù, per anni, una guida per questo tipo di approccio; ma nel 21° secolo, questo protocollo fù parecchio ridimensionato, visto che molte volte non sortiva i risultati sperati. Infatti, un approccio del genere la settimana prima di una gara importante, può generare (se le scorte di glicogeno si abbassano eccessivamente) livelli di affaticamento elevati che possono far perdere freschezza atletica il giorno della gara, compromettendo la performance!
RICADUTE APPLICATIVE
Appare quindi ovvio che l’approccio a questo protocollo debba essere fatto con criterio tenendo in considerazione:
Il giusto compromesso tra carico di glicogeno ed adeguato scarico psico-fisico.
L’individualizzazione del protocollo in base alle caratteristiche dell’atleta.
Di conseguenza, la prassi attuale prevede di incrementare la quota di carboidrati nei 3 giorni che precedono la gara, mantenendo una dieta normale i primi giorni dell’ultima settimana. Dal punto di vista dell’allenamento invece, si effettua una normale settimana di scarico. Infatti, è stato visto che anche in questo modo le scorte di glicogeno sono in grado di salire oltre i livelli normali! In particolar modo, gli ultimi 7 giorni vengono strutturati nel modo seguente:
Lunedì, Martedì e Mercoledì: regime alimentare normale
Giovedì, Venerdì e Sabato: regime alimentare calorico normale, ma con il 70-75% delle calorie fornite dai carboidrati.
In aggiunta, alcuni autori consigliano il Sabato di aggiungere un’ulteriore quota di carboidrati fino a 200-250 grammi in più, ma con il rischio (per saturazione dei “serbatoi” di glicogeno) che una parte di questi vengano convertiti in grassi se non si ha un’elevata capacità di stoccare glicogeno.
L’approccio che abbiamo indicato sopra è quello maggiormente seguito, perché basato sulla ripartizione calorica; nell’immagine sotto, riportiamo il confronto con altri 2 protocolli che si focalizzano principalmente sulle quote di carboidrati assolute o relative.
Ovviamente questo approccio è più efficace tanto più è significativa la capacità dell’atleta di immagazzinare glicogeno, che dipende principalmente dal potenziale aerobico del soggetto; quindi, chi si allena giornalmente, è probabile che possa beneficiarne maggiormente, mentre chi si allena solo 3-4 volte a settimana, può limitare il carico di carboidrati anche solo agli ultimi 2 giorni della settimana.
Ore di sonno e sintesi di glicogeno
Un’ulteriore variabile su cui si sta sempre più approfondendo l’influenza, sono le ore di sonno. Infatti, esistono evidenze che confermano come dormire una quantità di ore inadeguate durante la notte abbassi la sensibilità all’insulina e incrementi la produzione di cortisolo (Knutson 2007, Schussler et al 2010, Morselli et al 2011). Questa “situazione” ormonale non è la condizione ottimale per una sintesi efficiente di glicogeno. Nel nostro post dedicato a come dormire adeguatamente per essere un miglior atleta, puoi trovare tutte le indicazioni per ottimizzare questa fondamentale fase della giornata.
CONCLUSIONI
L’utilizzo di un’adeguata strategia alimentare nei giorni che precedono una gara lunga (durata superiore ai 90’) può aiutare a presentarsi alla partenza con una quota di glicogeno muscolare superiore, fermo restando che la variante che influirà maggiormente sul risultato sarà il “come” ci si è allenati (carico e scarico) nei mesi che precedono la competizione; di conseguenza non è necessaria la “deplezione eccessiva” ricercata nei primi protocolli utilizzati negli anni 60-80’.
Visto che il protocollo va individualizzato in base alle caratteristiche personali, è consigliabile provarlo precedentemente in allenamento, magari prima di un lungo; in questo caso, sarà sufficiente utilizzare il carico di carboidrati per soli 1-2 giorni. Sotto riportiamo alcune indicazioni importanti per ottimizzarne l’approccio:
Gli uomini hanno una maggiore capacità di immagazzinare glicogeno rispetto alle donne, quindi è possibile ipotizzare che a livello femminile, la quota di carboidrati possa essere leggermente inferiore.
Atleti con la prevalenza di fibre muscolari intermedie (atleti veloci) hanno una maggiore capacità di stoccare glicogeno rispetto ad atleti a prevalenza di fibre lente (atleti resistenti); Per questo motivo, è logico ipotizzare che possano maggiormente beneficiare di questo protocollo. Gli atleti resistenti invece, è probabile che traggano maggiore beneficio dall’integrazione di carboidrati in gara.
La capacità del muscolo di immagazzinare glicogeno è superiore nelle 2 ore successive all’esercizio, per una maggiore sensibilità nel captare il glucosio da parte della cellula muscolare. Per questo motivo, è importante (nella settimana che precede la gara) assumere carboidrati soprattutto dopo l’allenamento. In questi casi, chi non riuscisse ad ingerire una quota sufficiente di carboidrati (per motivi di natura logistica o per mancanza di appetito), consigliamo un ottimo prodotto per qualità/prezzo, cioè la Maltodestrina della Myprotein.
Questo protocollo è ovviamente l’ideale in sport di endurance come ciclismo, atletica leggera, nuoto, triathlon, ecc. In discipline a carattere intermittente come il calcio, potete leggere il post specifico. Per contestualizzare il carico di carboidrati nella dimensione del maratoneta, vi consigliamo di leggere il post dedicato all’alimentazione ed integrazione in maratona.
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Il post di oggi lo dedichiamo alla mia Tesi di Specializzazione di Laurea (Scienze Motorie) del 2004. Gli argomenti (strettamente collegati) sono 2:
Il primo è relativo all’approfondimento della disciplina dello Skyrunning (ma molti concetti sono assimilabili anche al “mondo Trail”) e all’allenamento per le competizioni.
Il secondo è relativo all’allenamento in quota per migliorare le prestazioni a livello del mare.
Essendo una tesi del 2004, alcuni concetti possono risultare poco aggiornati, ma altri sono più che mai attuali. Le pagine sono 82, e l’indice iniziale può sicuramente aiutare a “sfoltire” (nella lettura) le parti più o meno interessanti. Ovviamente, il linguaggio è scientifico, ma credo che la maggior parte dei lettori possa avere le basi per comprendere quanto scritto. Sotto riportiamo alcuni estratti ed immagini delle parti che ritengo più interessanti ed attuali. In fondo al post sarà comunque possibile scaricare la Tesi in formato integrale, e se qualcuno vorrà interagire portando il proprio contributo (o semplicemente chiedere spiegazioni) potete mandarmi una mail o commentare in fondo.
PRIMA PARTE (Lo skyrunning)
Inizialmente vengono analizzate le caratteristiche delle prove del SKYRUNNER WORLD CHAMPIONSHIP del 2004 per analizzare quelle che sono le richieste “oggettive” a cui va incontro uno Skyrunner; è un’analisi che viene fatta in tutte le discipline, per definire quello che è il Modello funzionale di uno sport. Successivamente si analizza la risposta (a riposo e sottosforzo) di un organismo impegnato in gare di endurance in situazione di alta quota, che non tiene solo in considerazione dell’ipossia (cioè alla carenza di ossigeno dovuta alla rarefazione dell’aria), ma anche di tutto il contesto ambientale/atmosferico. La parte successiva riguarda il contesto tecnico/atletico che va a formare il Modello funzionale, finendo con gli aspetti medici, sociali e psicologici della disciplina. Ultima parte rappresenta ovviamente la programmazione dell’allenamento, dalla strutturazione della stagione, alle singole sedute che andranno a formare l’intero programma. Sotto riportiamo le conclusioni alla prima parte:
L’ipossia comporta un abbassamento della saturazione di ossigeno nel sangue con un peggioramento delle prestazione di endurance oltre i 2 minuti di durata. Le modificazioni che incontra l’organismo a seguito di un’esposizione ad alta quota dipende da molti fattori tra i quali la quota considerata, il grado di allenamento, l’abitudine all’altura, il tipo di allenamento svolto in altitudine, il tempo di esposizione ed eventuali tratti genici acquisiti, l’etnia considerata oltre a differenze interindividuali. Con il passar dell’esposizione l’organismo, tramite i processi di aggiustamento/acclimatazione/adattamento, riesce a compensare (anche se mai del tutto) le conseguenze di una ridotta pressione parziale di ossigeno. L’esposizione cronica, in particolare a quote medio alte, non supportata da un allenamento aerobico ad alta intensità comporta un peggioramento degli elementi molecolari responsabili della produzione aerobica di energia.
I fattori che possono influenzare maggiormente la performance dopo periodi di acclimatazione possono essere considerati il miglioramento del sistema respiratorio (risposta ventilatoria ipossica, rendimento dei muscoli respiratori, ecc.) e l’aumento della quantità circolante emoglobina.
Lo skyrunning si può quindi considerare come una disciplina relativamente giovane, di endurance a importante componente tecnico/tattica che in alcuni casi può assumere connotati di “sport estremo”.
SECONDA PARTE (Allenamento in altitudine)
Se la prima parte era rivolta a tutti i podisti (di qualsiasi livello) che si cimentano in Skyrace e Trail, questa seconda è dedicata a chi si allena in quota per ottenerne benefici a livello del mare. Malgrado questa sia una pratica abbastanza diffusa, a livello scientifico l’evidenza degli effetti è molto modesta, dovuta al fatto che la strutturazione dell’allenamento in tali condizioni deve essere particolarmente individualizzato. Tra le varie strategie, il Living-High Training-Low (cioè risiiedere in alta quota e allenarsi a quote inferiori) è sicuramente la più efficacie, visto che minimizza la penalizzazione dell’allenamento in quota (che determina un ovvio scadimento della capacità prestativa), ma mantiene lo stimolo della produzione mi emoglobina. Nei vari capitoli, ovviamente viene analizzata anche la programmazione dell’allenamento di atleti di alto livello e soprattutto la valutazione della condizione atletica e di salute in risposta allo stress ambientale dell’alta quota. Sotto riportiamo le conclusioni alla prima parte:
“L’ipotesi scientifica sull’efficacia dell’allenamento in altitudine per migliorare la capacità di prestazione a livello del mare parte dal presupposto che una tale carenza di ossigeno (ipossia) di lieve entità rappresenta uno stimolo di allenamento aggiuntivo e/o che l’acclimatazione all’altitudine sollecita un incremento della capacità di prestazione.” L’allenamento in altitudine rappresenta quindi una riserva di prestazione, poiché con esso possono essere prodotti stimoli allenanti superiori a quelli prodotti dai normali metodi di allenamento, anche se la priorità spetta al carico di allenamento. Nonostante questo per ottimizzare il controllo dell’allenamento in altitudine sono necessari ulteriori ricerche con atleti di altissimo livello con adeguati gruppi di controllo. Il fatto maggiormente certo è che la predisposizione individuale all’allenamento in altitudine riveste un ruolo significativo sull’esito del successo di tale strategia. Un buon stato di salute e di freschezza psicofisica sono condizioni necessarie prima di intraprendere un periodo di allenamento in altura.
Il metodo di esposizione all’ipossia maggiormente utilizzato oggi in Italia è quello del “living-high training-high” anche se molte volte le tipologie di soggiorno/allenamento possono subire delle variazioni a seguito di fattori climatici e logistici. Dal punto di vista scientifico invece la metodologia più efficace sarebbe la “living-high/training low”. Questi 2 metodi sono quelli su cui si hanno le maggiori rilevanze statistiche; ne esistono altri soprattutto con l’uso di tende o camere che necessitano ancora di ulteriori studi.
Come approfondito nella variante Rollercoster dei Lunghi (Lunghi con saliscendi finali), l’alternare salite e discese a ritmi medi è un forte stimolo allenante per tutte le componenti neuromuscolari del podista (Forza e Velocità), unitamente alle componenti metaboliche. Se nel mezzo sopra citato, i saliscendi a ritmi medi venivano affrontati nel finale di corsa, oggi approfondiamo un mezzo che sfrutta questo stimolo per tutto l’allenamento.
Il mondo della ricerca scientifica applicata allo sport fino alla fine dello scorso secolo ha sempre rivolto le proprie attenzioni allo sport professionistico. Il crescente aumento della partecipazione amatoriale negli sport di resistenza degli ultimi 10 anni e le scoperte sugli effetti benefici dell’attività fisica ha portato i ricercatori ad interessarsi anche al mondo dilettantistico/amatoriale; purtroppo però, uno degli errori più comuni tra i podisti non professionisti è quello di voler copiare l’allenamento dei top runner, finendo spesso di trovarsi in condizioni di affaticamento o addirittura infortunarsi.
In questo documento analizzeremo le 2 tra le ricerche più interessanti pubblicate negli ultimi anni sulla scienza dell’allenamento applicata alla corsa amatoriale; buona lettura!!!
Molte volte il runner è online alla ricerca di mezzi d’allenamento in grado di fornire stimoli allenanti particolarmente efficaci per raggiungere i propri obiettivi; in questo non c’è nulla di male, anzi, credo sia un pregio il fatto di cercare di approfondire la propria conoscenza sull’argomento, al fine di diventare atleti più consapevoli ed efficienti.
Quello che però spesso viene sottovalutato (ovviamente in buona fede) è l’inserimento e l’esecuzione dei mezzi allenanti più semplici, come le corse continue e le sue varianti (Corsa lenta, corsa media, collinare, ecc.); è come se nel fare una torta si trascurassero ingredienti come la farina e lo zucchero. Le corse continue sono come la farina e lo zucchero della preparazione del runner; ovviamente non sono gli unici “ingredienti”, ma sono quelli senza i quali non si potrebbe neanche iniziare a parlare di allenamento per la corsa.
In questo primo post sull’argomento, tratteremo la corsa lenta e le sue varianti; varianti che non sono solo relative all’intensità dell’esercizio (come può essere la Corsa Lunga Svelta), ma anche alla pendenza (e relativi aspetti allenanti) o alla tecnica esecutiva. Vedremo come con delle piccole modifiche, si riuscirà ad allenare un ampio spettro di qualità, partendo dal mezzo allenante più semplice, cioè la corsa lenta.
Questo sarà di estremo aiuto al runner, perché imparerà a gestire piccole variazioni (come la tecnica di corsa, la pendenza, l’intensità, ecc.) ed associarle agli effetti allenanti; in questo modo aumenterà la propria consapevolezza, permetterà di migliorare la qualità del proprio allenamento e ridurre il rischio di errori.
In particolar modo imparando ad effettuare la Corsa Lenta alla giusta intensità, riuscirà ad essere più rilassato negli allenamenti di scarico e più “pimpante” in quelli di carico.
“Run hard Your hard days, Runr easy Your easy days”
Traduzione: Allenati duramente nei giorni di carico e corri con facilità in quelli di scarico
È una delle frasi più ricorrenti ripetute dai tecnici Americani, che credo incarni molto bene il concetto appena espresso.
Bene, allora cominciamo prima di tutto con i concetti più semplici, cioè come si monitora la propria intensità di allenamento; poi andremo ad analizzare le singole varianti cercando di comprenderne le caratteristiche, gli effetti allenanti e i giorni necessari per recuperare tali sforzi. Tra i mezzi che andremo ad analizzare troveremo sia allenamenti alla portata di tutti, che stimoli adatti principalmente ad atleti più evoluti.
Ma prima di andare a vedere come si monitorano le intensità, vi lasciamo alla tabella sotto, in cui vengono elencate le grandezze atletiche del runner, cioè le qualità che vengono stimolate con l’allenamento. Potete approfondire l’argomento nell’articolo specifico.
Perché le intensità di riferimento sono così importanti
I mezzi allenanti si possono individuare e codificare in base alla Velocità, in base alla Frequenza Cardiaca e in base alla Fatica Percepita.
Velocità: in questo caso bisogna avere i riferimenti metrici a terra o il GPS. Purtroppo non sempre si hanno a disposizione questi mezzi o non sempre ci si allena su terreni pianeggianti; questo non è un problema, in quanto le intensità possono essere controllate anche tramite altre variabili.
Frequenza cardiaca: è un metodo di monitoraggio molto semplice, ma dipende fortemente dalla temperatura esterna e dal tempo d’esecuzione dell’esercizio (deriva termica); già quando abbiamo parlato dell’apparato cardiovascolare abbiamo definito i limiti di tale rilevazione. Più specificatamente, a pari velocità, la frequenza cardiaca in ambienti particolarmente caldi e umidi, può avere fino a 10 battiti in più rispetto ad un ambiente freddo. Inoltre, nel finale d’allenamento (se questo è particolarmente lungo) possono esserci 3-8 battiti in più (sempre a pari andatura) a causa della disidratazione. Occorre quindi conoscere con una certa scientificità ed esperienza la variazione della frequenza cardiaca in base alle condizioni esterne ed utilizzarlo in maniera complementare alla fatica percepita (vedi sotto).
Allenarsi a “sensazione” (fatica percepita): chi è particolarmente esperto può ricorrere a questo metodo, la cui precisione è riconosciuta anche a livello di bibliografia internazionale (Okuno et al 2011, Zamuner et al 2011, Scherr et al 2013). Ad esempio, ad ogni ritmo di allenamento corrisponde un livello di “fatica percepita”; così la corsa lenta corrisponderà ad un’intensità alla quale si respira facilmente (e durante la quale si può anche chiacchierare), la corsa media corrisponde ad un’intensità che va tra la corsa lenta e il ritmo che si tiene in una gara di 10 Km, ecc. Allenarsi con questo metodo ha il pregio di non farsi condizionare eccessivamente dai parametri (frequenza cardiaca, velocità, ecc.), ma allo stesso tempo è meno preciso quando si devono effettuare ripetute a velocità superiore a quelle di gara.
Ma qual è il metodo migliore?
Non necessariamente un metodo è migliore dell’altro, ma si possono fare alcune considerazioni:
Quando si effettuano allenamenti con ripetute a ritmi definiti sarebbe meglio farle su percorsi misurati (riferirsi quindi alla velocità) o al limite usare il GPS.
Quando si effettuano i ritmi lenti, si può usare il metodo a sensazione (correre senza sentire affanno respiratorio) o fissare (nel caso si usi il cardiofrequenzimetro) una frequenza cardiaca di riferimento da non superare per non rendere l’allenamento troppo faticoso.
Per gli allenamenti a ritmo medio si possono fare le stesse considerazioni di sopra dei “ritmi lenti”, ma fissando due frequenze cardiache di riferimento, cioè una superiore (da non superare) e un’inferiore (sopra la quale bisogna rimanere). In ogni modo, in questo caso è possibile basarsi anche sulle velocità di riferimento (cioè in secondi al Km) con il GPS, oppure a Sensazione.
Quando si effettuano invece andature a ritmi leggermente inferiori a quelli di gara (detti anche corto veloce o nella fase finale di allenamenti progressivi), a mio parere, è meglio riferirsi alle sensazioni; in tal modo non si rischia di fare un allenamento troppo difficile da recuperare e ci si abitua a gestire con maggiore sensibilità il “ritmo gara” e la fatica che ne consegue.
Per ogni mezzo allenante che presenteremo, vi daremo i parametri di tutti e 3 i riferimenti (velocità, frequenza cardiaca e sensazione), indicando quali sono i migliori da considerare per ogni allenamento.
Quanti giorni di recupero mi servono per smaltire l’affaticamento di un determinato allenamento?
Questo è un parametro molto sottovalutato, ma estremamente utile, perché ci indica i giorni che dovrebbero intercorrere tra le sedute di allenamento di carico (cioè quelle più impegnative), per evitare di affaticarsi eccessivamente (rischiando sotto-prestazioni) e limitare gli infortuni.
Più precisamente, per tempo di recupero si intendono i giorni di riposo assoluto o “allenamento leggero” (come la sola Corsa Lenta) che intercorrono tra uno stimolo di carico (cioè un allenamento impegnativo) e quello successivo. Ad esempio, se “devo recuperare 1 giorno ogni 5 km di medio”, dopo un allenamento di 12 km di medio devono intercorrere 2-3 prima dell’allenamento impegnativo successivo. Durante tale periodo è opportuno effettuare solamente allenamenti di Corsa lenta e al limite qualche allungo.
Ovviamente questo è un parametro molto variabile, in quanto dipende dal livello di allenamento, dalle caratteristiche del runner, dall’esperienza, dal momento della stagione (se si è “in forma”, oppure si è all’inizio della preparazione), dal proprio stile di vita, e anche da quanti allenamenti vengono effettuati a settimana; di conseguenza, i dati che noi indicheremo saranno da prendere con le molle, ma permetteranno comunque di comparare diversi mezzi allenanti al fine di poter confrontare quelli che inducono maggior affaticamento (e quindi necessitano di maggior recupero) rispetto ad altri.
Ma iniziamo ora ad analizzare i vari mezzi allenanti.
Corsa lenta
Partiamo dall’ingrediente più semplice, ma anche quello più sottovalutato. Nel nostro post dedicato alla programmazione dell’allenamento, abbiamo visto come a livello professionistico le basse intensità costituiscono circa l’80% del volume d’allenamento totale (Seiler 2010).
Per chi corre a livello amatoriale, ed effettua un numero inferiore di Km settimanali, è stato visto che più mezzi allenanti possano essere efficaci (anche quelli ad altissima intensità), ma un elevato volume ad intensità moderata rappresenta una variabile fondamentale anche per questa tipologia di atleti (Boullosa et al 2020).
Se un chilometraggio settimanale elevato (compatibilmente con il tempo a disposizione ad allenarsi) rappresenta le fondamenta della prestazione, è ovvio che la maggior parte del volume d’allenamento debba essere effettuato ad intensità moderata; per “intensità moderata” intendiamo la Corsa lenta, la Corsa lunga svelta ed il Collinare; tutti questi mezzi hanno in comune un’intensità non elevata, ma sono dotati di caratteristiche peculiari in grado di fornire stimoli allenanti anche di natura neuromuscolare o metabolica (come aumentare il consumo di grassi); vedremo questi aspetti successivamente.
Ma rimaniamo sulla nostra corsa lenta e su un aspetto da molti trascurato, cioè la giusta intensità: come vedremo nel prossimo paragrafo, la velocità di questo mezzo allenante è idealmente più lenta di 45”/Km rispetto al Ritmo Gara 10 Km, e corrispondere ad una sensazione di correre “senza fare fatica”, durante la quale “è possibile anche chiaccherare”. Nel caso in cui ci si sentisse affaticati, nulla vieta di correre anche 1’ o 1’20”/Km più lenti del RG10 Km; l’importante è percepire di “correre senza fatica”. L’errore che fanno molti runner è quello di effettuare questa andatura ad intensità superiori, trasformando spesso un ritmo lento in un ritmo medio.
Ma perché questo rappresenta un errore?
Semplice, perché la corsa lenta (di durata non superiore ai 60-65’) è solitamente inserita in giornate che inframezzano sedute allenanti impegnative con lo scopo di recuperare l’allenamento precedente e presentarsi pimpanti a quello successivo; riuscirò mai a raggiungere questi scopi se “trasformo” questo allenamento in un “medio”?
Non solo, a volte le sedute di 8-12 Km di corsa lenta (non i “Lunghi”, per intendersi) vengono effettuate con leggeri incrementi di lunghezza per aumentare gradualmente il volume settimanale; di conseguenza lo stimolo allenante è già ottenuto all’incremento dei Km.
Ma facciamo un esempio per chiarirci meglio: a questo link, potete vedere gli allenamenti di Kenenisa Bekele in vista della maratona di Berlino del 2019, quando concluse con quello che attualmente è il secondo miglior crono (omologato) di sempre, cioè 2h01’41”. Dalla sua tabella d’allenamento, potete vedere come la sua “easy” (che corrisponderebbe alla nostra corsa lenta) sia di 4’10”/4’15” al Km, cioè 1’20”/Km più lento del Ritmo Maratona e 1’40”/Km più lento del Ritmo Gara dei 10 Km (del suo primato, che poi è anche il record mondiale, di 25’17”).
Ovviamente i Top runner tendono ad avere la forbice dei vari ritmi (da quello gara alla corsa lenta) più ampi degli amatori, in quanto sono più performanti ed effettuano un chilometraggio maggiore, ma per uno come Kenenisa che corre la maratona ai 2’53”/Km, è evidente che i 4’10-4’15”/Km siano ritmi facili! Questo gli ha consentito di effettuare un chilometraggio elevato e di recuperare adeguatamente tra le sedute impegnative.
Ricordatevi sempre “Run hard Your hard days, Run easy Your easy days” (è la frase che abbiamo tradotto ad inizio articolo); a diversi atleti che alleno ricordo sempre che “per andare forte in gara, è necessario avere il coraggio di andare piano (quando serve) in allenamento”!
Queste considerazioni valgono ancor di più per chi effettua 5 o più allenamenti settimanali; in questi condizioni non è raro effettuare allenamenti con i muscoli particolarmente affaticati da quello precedente; per questo motivo, è fondamentale rispettare le proprie sensazione di “Corsa facile” nelle sedute di Corsa Lenta.
Quali intensità di riferimento?
In base ai vari metodi di sensibilità del ritmo citati sopra, la Corsa lenta può essere fatta tenendo conto di:
Velocità di riferimento: +45”/Km del RG10 Km o più lenta. Per esempio, se corro i 10Km in 40’ (cioè a 4’/Km), la velocità massima della mia corsa lenta sarà di 4’45”; quindi potrò correre a quell’andatura o più lentamente, soprattutto quando ci si sente affaticati dagli allenamenti precedenti.
Fatica percepita: si intende un’andatura alla quale si può correre tranquillamente (senza fare fatica) e alla quale si può anche chiacchierare. Se si è stanchi dalla seduta precedente, la Fatica percepita è il metodo d’elezione per stabilire questo ritmo.
Frequenza cardiaca: si intende un’intensità compresa tra il 70-75% della Mfc (Massima frequenza cardiaca) o comunque un’intensità inferiore al 75% della Mfc. Questo è comunque un parametro meno indicativo dei precedenti, per questo motivo si consiglia di utilizzarlo solamente se si ha esperienza nel monitoraggio della frequenza cardiaca nelle varie condizioni ambientali e di allenamento.
Nell’immagine sopra è possibile vedere una comparazione tra le varie corse continue per un atleta che ha un RG10 Km (ritmo gara sui 10 Km) appena inferiore ai 16 Km/h (3’48”/Km). Come potete notare, tutti i parametri (sia il Consumo di ossigeno che il Lattato) nella Corsa lenta corrispondono ai valori minimi, ad indicare come lo stress a cui è sottoposto l’organismo a questi ritmi sia molto basso; per questo motivo si riescono a correre diversi Km a questa velocità, aumentando il carico allenante con maggiore sicurezza. Non solo, l’inserimento di questa andatura (se effettuata correttamente) in sedute di scarico ha un effetto rigenerante permettendo di smaltire l’affaticamento della seduta precedente e presentarsi più pimpanti in quella successiva.
Per chi vuole avere la certezza di correre a velocità “sufficientemente lenta” ed allenare al contempo il sistema respiratorio, consigliamo di leggere il nostro post sulla respirazione nasale.
Nel nostro post dedicato alla programmazione dell’allenamento potete trovare indicazioni per l’incremento graduale del chilometraggio settimanale durante la preparazione di una competizione.
Le eccezioni che confermano la regola
Il parametro di “Velocità” indicato sopra (cioè +45”/Km rispetto al RG10 Km) è valido prevalentemente per quei runner che corrono i 10 Km in gara in un tempo compreso tra 35’ e 55’. Chi corre più lentamente può comprimere leggermente l’intensità (cioè utilizzare +30-40”/Km), mentre chi ha un primato inferiore ai 35’ dovrebbe aumentare la forbice tra il Ritmo gara e la Corsa lenta (ricordatevi l’esempio di Bekele). Altra variabile che può “allargare” la differenza tra i 2 ritmi sono le condizioni ambientali, soprattutto il caldo; nel nostro post dedicato ad allenarsi e gareggiare al caldo, potete trovare indicazioni interessanti. Stessa cosa vale per l’allenamento in quota.
La differenza tra la Corsa lenta ed il Lungo
Per la prima, si intendono solitamente sedute comprese tra gli 8-12 Km, o comunque inferiori ai 65-70’; oltre a questa distanza, possiamo considerarli dei Lunghi. I Lunghi hanno come scopo allenante quello di costruire la Resistenza Aerobica (cioè la capacità di correre a lungo limitando gli effetti della fatica), ed allo stesso tempo contribuiscono a mantenere elevato il chilometraggio settimanale.
Essendo allenamenti di carico (e non di rigenerazione) è importante che la velocità non sia troppo bassa, e sia compresa tra +45 e +60”/Km rispetto al RG10Km; tutt’al più, l’intensità può raggiungere anche quella della Corsa lunga svelta (che vedremo in uno dei prossimi capitoli), con la consapevolezza che i giorni necessari per il recupero possano aumentare.
Ma facciamo un esempio per chiarirci meglio: di norma, è necessario 1 giorno di recupero (cioè di allenamenti leggeri di Corsa Lenta o riposo completo) ogni 10-12 km di Lungo fatto di corsa lenta, con ovvie grandi differenze interindividuali. Se viene inserita la Corsa Lunga Svelta (CLS), è necessario 1 giorno di recupero per 7-9 Km di CLS; ad esempio, se corro 18 Km, dei quali 10 di CL e 8 di CLS, sono necessari 2 giorni di recupero.
È quindi chiaro come il Lungo, quando deve avere una forma allenante generale, viene corso a queste 2 velocità; questo vale in particolar modo nel periodo di preparazione Generale, cioè nella prima parte della stagione. In questa fase, come regola generale, può valere che per preparare distanze pari o inferiori alla maratonina, siano sufficienti lunghi di 90’, magari ripetuti più volte ed in forma diversificata.
Nel periodo Specifico (cioè successivamente) ogni Lungo assume le distanze e caratteristiche tipiche della gara/e a cui si finalizza la stagione; potete trovare le preparazioni specifiche delle gare nel capitolo Preparazione per le gare specifiche, nel nostro post dedicato ai Pilastri della corsa.
Per runner particolarmente allenati e nella fase conclusiva della stagione è possibile optare anche per le Varianti dei lunghi; questi hanno inseriti al loro interno delle variazioni di ritmo e di pendenza che aumentano non poco il carico allenante, ma necessitano almeno di un giorno in più di recupero. Anche per evitare infortuni, si consiglia di correre questo tipo di Lunghi con un chilometraggio ridotto rispetto al solito.
Il lungo collinare
Passiamo ora al mio mezzo allenante preferito: per diversi motivi, che andremo ad analizzare, il Lungo collinare permette di dare degli stimoli allenanti superiori, con una riduzione del rischio di infortuni rispetto ai normali Lunghi che vengono effettuati in pianura. Andiamo ora a vederne i dettagli.
Aspetto principale del Lungo Collinare è il percorso ondulato, fatto anche di salite abbastanza impegnative (nelle quali si riesce comunque a correre), eventualmente su terreni vari, ma preferibilmente senza discese particolarmente ripide e lunghe in asfalto. Vediamo ora i 4 punti che fanno preferire questo allenamento ai Lunghi pianeggianti:
Punto N° 1: sviluppo della Forza
Nel nostro post dedicato alla forza e velocità del podista, abbiamo visto come la corsa in salita permetta di sviluppare la Resistenza Muscolare Locale, che rappresenta la forza specifica che deve avere il runner. Riassumendo brevemente, questa aiuta a preservare i cali di forza che possono avvenire nei finali di gara, che solitamente tendono a far perdere efficienza di corsa. Non solo, correndo in salita la caviglia (a causa della pendenza) assume una maggior posizione in dorsiflessione a causa della salita, migliorandone sia la forza che la flessibilità, aiutando a prevenire gli infortuni e i crampi da sport.
Ma quale intensità tenere in salita?
È ovvio che negli allenamenti collinari l’unico parametro necessario per il monitoraggio sono le sensazioni corporee (oltre ad un cronometro o un GPS per valutare la durata o lunghezza dell’allenamento); se per i tratti in pianura possono essere fatte le stesse considerazioni dei Lunghi, nei tratti in salita è ovvio che la fatica percepita (anche correndo lentamente) possa superare quella della CL. Quello che è importante è che l’impegno sia comunque moderato, compatibilmente con il riuscire a correre. Per i runner più esperti che effettuano un elevato chilometraggio settimanale, ma hanno poche occasioni per effettuare lavori con salite, consigliamo di leggere anche il capitolo Lunghi collinari con RLSAL nel post dedicato alle ripetute in salita.
Punto N° 2: sviluppo della Velocità
Sempre nel nostro post dedicato alla forza e velocità del podista, abbiamo visto come la Velocità del runner dipenda dalla spinta orizzontale e dalla stiffness. La corsa in discesa (anche a basso impegno) è uno sforzo prevalentemente eccentrico, cioè alcuni muscoli sono particolarmente sollecitati in fase di allungamento nella fase di contatto del piede con il terreno.
Vi invito a visionare questi 2 bellissimi minuti di spiegazione del prof Di Prampero (tratto dal blog laltrametodologia), in cui il fisiologo spiega in maniera estremamente semplice, e comprensibile a tutti, come durante uno sforzo eccentrico (come correre in discesa) venga “utilizzata” una parte inferiore di fibre muscolari, incrementando notevolmente il carico di quelle sollecitate.
Tutto questo implica come anche senza correre particolarmente veloce, alcune fibre muscolari siano segnatamente sollecitate, rappresentando un ottimo effetto allenante nei confronti della Stiffness muscolare (che una componente della velocità del runner, che influenza l’elasticità).
Ma con che atteggiamento si corre in discesa in un lungo collinare?
Ovviamente l’impegno deve essere moderato, cioè non si deve avere il fiatone, ma avere la sensazione di correre con naturalezza; altrettanto importante è adottare una tecnica di corsa corretta.
Nell’immagine sopra sono indicati alcune specifiche essenziali per approcciare la discesa in maniera ideale. Non è difficile ricordarli tutti, è sufficiente tenere presente che tutti gli elementi del corpo avranno un’attitudine orientata a finalizzare al meglio il movimento. Ma partiamo “dall’alto”; testa e respirazione dovranno essere sciolti, il busto leggermente inclinato in avanti (per ridurre l’entità dell’impatto) in maniera tale che il bacino non subisca marcate oscillazioni mantenendo una corsa rotonda. Lo stesso si otterrà piegando leggermente il ginocchio in fase di appoggio e prendendo contatto con il terreno con il piede in maniera neutra; infatti, molti runner tendono ad atterrare sul tallone con il ginocchio esteso, aumentando drasticamente le forze d’impatto, con la conseguenza di frenare bruscamente ad ogni passo ed incrementare il rischio di infortuni. Questi errori sono ancor più evidenti quando la pendenza è elevata, per questo motivo, nei collinari, consiglio di evitare discese particolarmente ripide su asfalto; nei tratti in sterrato (o su sentiero) è consigliabile accorciare il passo a seconda dell’irregolarità del terreno, in maniera tale da scendere con maggiore sicurezza. Per chi vuole approfondire come migliorare in discesa, può leggere il nostro articolo specifico.
Punto N° 3: prevenzione degli infortuni
Correre su pendenze diverse comporta sollecitazioni più eterogenee di muscoli, ossa e legamenti; questo, oltre a fornire un effetto allenante più completo (come forza e velocità), evita che le sollecitazioni siano continuamente effettuate agli stessi angoli articolari come avviene in pianura. Facciamo un semplice esempio del piede: correndo in pianura nella fase di appoggio, il tallone e la punta saranno più o meno allo stesso livello; in salita la punta risulterà sopra al tallone, mentre in discesa il tallone sarà sopra la punta. Allo stesso modo, tutte le altre articolazioni beneficeranno della stessa eterogenicità degli stimoli; ancora più diversificato sarà l’appoggio nel caso in cui si corra su terrenidiversi. La sensibilità di corsa ne trarrà grandissimi vantaggi.
Non solo, visto che gli infortuni da sovraccarico si verificano soprattutto quando l’apparato muscolo-scheletrico è sollecitato in maniera univoca (stessa velocità, stessa pendenza, stesso terreno, ecc.), il collinare aiuta a diversificare gli stimoli riducendo il rischio di infortuni.
Punto N° 4: test e valutazione
Il collinare (e più precisamente un settore di esso) può essere usato anche come test soggettivo della propria condizione; tutti sappiamo che, anche tenendo un passo moderato su una salita molto ripida (lungo la quale si riesce comunque a correre), la fatica è maggiore quanto minore è la nostra condizione di forma. Non solo, Townshend et al 2010 provarono che lo sforzo fatto in salita, aveva ripercussioni negative (a seconda della fatica fatta) anche nel tratto successivo alla salita stessa; infatti dopo una salita si tende a ricercare spontaneamente una fase di recupero, dipendente dallo sforzo profuso e dalla fatica accumulata nel tratto ripido.
Quindi, quale migliore soluzione di testarsi in questo determinato contesto, mantenendo comunque un passo moderato in salita (vista la pendenza) e focalizzandosi solamente su quelle che sono le nostre sensazioni (senza far caso a cronometro, GPS o cardiofrequenzimetro) durante la salita e nell’immediato tratto successivo?
È un po’ come faceva Marco Pantani quando voleva testarsi sulla salita di Carpegna, una salita estremamente impegnativa di 6 Km con pendenza media superiore al 10%; la inseriva nel suo percorso d’allenamento per auto-valutarsi prima degli appuntamenti che riteneva importanti per la sua stagione agonistica. Allo stesso modo è possibile, per un runner, valutare soggettivamente la sua condizione atletica generale inserendo una salita (vedremo ora come) all’interno di un lungo collinare. Ma quali sono i requisiti affinchè questo “test soggettivo” venga fatto nella maniera migliore?
La prima cosa è la caratteristica della salita; per un runner deve essere lunga almeno 1.6 Km con pendenza elevata (ma corribile), possibilmente superiore all’8-9% di media. Ovviamente può essere anche più lunga e con una pendenza inferiore, l’importante è che la parte finale sia piuttosto impegnativa e possibilmente seguita da un falsopiano; in questo modo si potrà fare una sorta di doppia valutazione. La prima in base alle sensazioni provate durante la salita e la seconda nel falsopiano successivo.
Naturalmente la parte successiva dell’allenamento può variare in base allo stimolo allenante che si vuole dare alla seduta.
Aspetto importante per questo tipo di test è la ripetibilità, cioè deve essere affrontato in condizioni di relativa freschezza (non affaticati da allenamenti precedenti) e dopo un percorso iniziale comune; infatti, non avrebbe senso affrontare una salita del genere a volte dopo 4 Km ed altre dopo 10 Km. L’importante, se si vuole effettuare una valutazione che sia il più possibile obiettiva, è percorrerla dopo lo stesso percorso iniziale; può essere fatta dopo il riscaldamento o dopo altri Km in aggiunta. Altrettanto fondamentale è il correrla con l’impegno tipico di una salita di un lungo collinare, cioè a velocità moderata, ascoltando le sensazioni corporee.
Ovviamente non darà indicazioni precise, come il tempo che si può valere in una gara di 10 km pianeggiante, ma effettuata in momenti strategici della stagione (ad esempio una volta al mese) permette di avere indicazioni abbastanza pratiche dello stato della propria “cilindrata” in quel momento.
Rispetto a test effettuati con tempi, misurazioni, GPS, o cardiofrequenzimetri, è meglio tollerato dal punto di vista psicologico e, anche se non permette di ottenere riscontri particolarmente precisi, consente di migliorare la consapevolezza delle proprie sensazioni e la gestione dei ritmi.
Ma come interpretare le sensazioni del test?
È molto semplice: se si percepisce un miglioramento rispetto alla volta precedente, allora significa che nell’ultimo periodo si è effettuato un buon lavoro sul versante della velocità/capacità di gara e della forza muscolare. Se invece si percepisce un peggioramento o un “non miglioramento” rispetto al periodo precedente i motivi possono essere 2. Il primo è che ci si trova in un leggero stato di affaticamento (organico o muscolare), e si ha bisogno di un periodo (più o meno lungo) di scarico. Il secondo è che si ha lavorato in maniera preponderante su qualità che non hanno inciso sulle variabili che fanno migliorare il runner in salita; è l’esempio di quando si effettuano molte (o troppe) ripetute brevi o allenamenti simili.
Quanto è necessario recuperare dopo una seduta di lungo collinare?
Questa tipologia di allenamento è molto simile alla Corsa Lenta, ma produce un affaticamento muscolare leggermente superiore, sia perché alcuni tratti (come quelli in salita) sono inevitabilmente effettuati ad un impegno metabolico superiore, sia a causa degli impatti della corsa in discesa. Se dopo un lungo il recupero “standard” è di 1 giorno ogni 10-12 Km, dopo un lungo collinare possiamo considerare 1 giorno ogni 8-10 Km. Tempi superiori possono essere necessari per chi corre le primissime volte in discesa senza essere abituato.
Quali sono i limiti del lungo collinare?
Dopo i tanti elogi fatti a questo allenamento, credo sia anche giusto indicarne il difetto principale (che è comunque relativo). Come abbiamo più volte accennato, la miglior qualità di questo mezzo, rispetto ai lunghi pianeggianti, è il fatto di unire un lavoro di tipo neuromuscolare al classico stimolo sulla Resistenza Aerobica. Nell’immagine a fianco, è possibile vedere quali sono le qualità neuromuscolari del runner; come ripetuto, la corsa in salita permette di migliorare la Resistenza muscolare locale, mente quella in discesa la Stiffness. Quello che manca è la Spinta orizzontale; è quindi ovvio che se si corressero tutti gli allenamenti in salita/discesa, si allenerebbe poco quest’ultima qualità. Ma visto che la spinta orizzontale si allena prevalentemente correndo in pianura, è sufficiente inserire allenamenti pianeggianti nel proprio piano d’allenamento.
La Corsa lunga svelta (CLS)
Questa intensità è stata coniata e codificata da Orlando Pizzolato nel suo testo del 2012, per identificare un passo intermedio tra la CL e la Corsa Media; per la maggior parte dei runner questa velocità (corca 35-50” più lenta del RG10Km) corrisponde all’andatura alla quale si consuma la maggior quantità di grassi a scopo energetico. Malgrado l’utilizzo di questi substrati dipenda anche da altri fattori (livello d’allenamento, sesso, stato nutrizionale e dieta; Maunder et al 2018), per la quasi interezza dei podisti, l’intensità allaquale l’utilizzo è maggiore, è comunque sotto la Corsa media. Non a caso, in ambito sperimentale è identificata come Massima potenza lipidica.
Nell’immagine sotto potete vedere le caratteristiche fisiologiche di questa velocità, confrontata con le altre andature continue.
La linea verde evidenzia proprio quello che è il consumo di grassi al minuto, che raggiunge il suo massimo valore ad un’intensità leggermente superiore rispetto alla Corsa lenta; oltre la Corsa media invece, il consumo cala progressivamente, perché l’organismo (ad intensità elevate) preferisce l’utilizzo dei carboidrati, che permettono di ottenere energia più velocemente.
La linea viola invece, rappresenta il consumo di ossigeno; è evidente che incrementando la velocità (rispetto alla CL) il consumo aumenti, senza andare incontro ad affanno respiratorio. A questa andatura è comunque possibile chiaccherare, anche se con una maggiore difficoltà rispetto alla CL.
La linea tratteggiata invece, indica la concentrazione di lattato nel sangue, che rimane stabile ed ad un valore molto simile a quello della CL; visto che (con dovute semplificazione) la concentrazione di questa molecola è legata all’adrenalina presente in circolo, è evidente come questa andatura non rappresenti uno stress elevato per l’organismo, di conseguenza atleti sufficientemente allenati possono mantenerla per un tempo superiore all’ora; non a caso, per un atleta sufficientemente allenato è necessario 1 giorno di recupero ogni 8-10 Km di CLS.
Quali intensità di riferimento?
In base ai vari metodi di sensibilità del ritmo citati sopra, la Corsa Lunga Svelta può essere fatta tenendo conto di:
Velocità di riferimento: +35/50”/Km del RG10. Per esempio, se corro i 10Km in 40’ (cioè a 4’/Km), la velocità massima della mia Corsa lunga svelta (CLS) sarà compresa tra 4’35” e 4’50”/Km.
Fatica percepita: leggermente più “svelta” della CL, ma senza sfociare nelle sensazioni di fatica tipiche della CM.
Frequenza cardiaca: convenzionalmente si considera un valore compreso tra il 75-80% della Mfc (Massima frequenza cardiaca). Questo parametro (come accennato sopra) è comunque sempre poco indicativo, perché dipende da altri fattori. È normale che, nella seconda parte della seduta, a pari velocità i battiti tendano comunque ad incrementare a cause della deriva della frequenza cardiaca (soprattutto in climi caldi).
Come e perché inserire la CLS nel proprio piano d’allenamento
È da considerare che nel range di velocità comprese nella CLS (+35/50”/Km del RG10 Km), è presente il Ritmo Maratona per una parte consistente dei podisti, cioè quelli che hanno un primato sui 10Km superiore a 37-39’ e un tempo ipotizzato in maratona sotto le 4 ore.
Per questo motivo, per i maratoneti rappresenta un’importante mezzo allenante. Com’è possibile intuire dal capitolo precedente, è utile per il maratoneta, sia per abituarlo al ritmo gara (solitamente il gesto della corsa è più “economico” alle velocità più utilizzate in allenamento), sia per allenare l’organismo ad utilizzare i grassi a scopo energetico, elemento fondamentale per risparmiare il glicogeno e glucosio; questi sono carboidrati sono fondamentali non solo per correre a ritmi medio-alti, ma anche per utilizzare i grassi a scopo energetico, visto che “i grassi bruciano al fuoco dei carboidrati”; potete approfondire questo concetto nella parte terminale di questo articolo.
Orlando Pizzolato nel suo testo Correre…secondo Orlando Pizzolato, indica come la durata di questo allenamento possa durare da 1h15’, fino a 2h, inserendolo (sempre per i maratoneti) nei weekend in cui non presenti i lunghissimi di preparazione alla maratona.
Ma a mio parere, è un’intensità che si può usare anche per chi prepara altre distanze nei seguenti allenamenti:
Nei progressivi ad inizio stagione, quando ancora non si utilizzano andature veloci: ad esempio effettuando una progressione che prevede una parte di CL, una di CLS e una di Corsa media.
Nella parte finale dei Lunghi: incrementare la velocità nel finale di un lungo (se di distanza non eccessiva) o anche nella seconda parte, a volte è abbastanza spontaneo, ed efficace dal punto di vista allenante. Quindi, a seconda delle sensazioni del momento, è possibile aumentare leggermente l’intensità (passando dalla CL alla CLS) nel momento in cui ci si sente di poterlo fare. L’importante è il “non forzare” l’incremento di ritmo nel caso o nei momenti in cui non ci si senta di farlo. È comunque da ricordarsi che i Km effettuati di CLS sono di un impegno maggiore, quindi è da tenerne conto quando si programmano i giorni di recupero successivi all’allenamento.
Nei recuperi delle ripetute: ad esempio, invece di correre 6x800m al RG5000m con 3’ di recupero di corsa blanda, è possibile effettuare 6×800 al RG10Km con 800m di recupero di CLS. Ovviamente questo è solo un esempio: il concetto di base è che è possibile abbassare la velocità della fase attiva della ripetuta (passando dal RG5000m al RG10Km), ed alzare la velocità del recupero (dalla corsa blanda alla CLS). In questo caso aumenta la velocità media dell’allenamento ad un livello paragonabile a quello delle Ripetute Lunghe, diventando di conseguenza più allenante, ma meno impegnativo dal punto di vista psicologico rispetto alle ripetute sulle distanze sui 2-3 Km (perché si varia intensità più spesso). Per approfondire leggi il nostro post sulle ripetute.
Corsa lenta attiva
Passiamo ora all’ultima forma d’allenamento di questo articolo; quest’andatura è prerogativa dei runner che hanno elevate doti neuromuscolari, quelli che nel nostro post dedicato all’individualizzazione dell’allenamento abbiamo indicato come “runner veloci” e comunque e necessariamente dotati di buona stiffness (reattività ed elasticità muscolare). Altro presupposto per essere portati ad utilizzare questo mezzo allenante è possedere una buona simmetria di corsa, cioè non avere asimmetrie anatomiche e funzionali che solitamente sono spesso concausa di frequenti infortuni.
Appare quindi evidente che la Corsa lenta attiva comporti una maggior rischio di infortuni, quindi se si decide di utilizzarlo è necessario esserne consapevoli. L’allenamento prende spunto dal libro The block training system in endurance running (del 2007) di Juri Verkhoshansky, in cui viene presentato un metodo per lo sviluppo del mezzofondista, maggiormente incentrato sull’allenamento di intensità (con l’utilizzo di molti movimenti funzionali) e con un volume di chilometri ridotto rispetto ai metodi classici.
All’interno di questo metodo troviamo il Bouncy run, un mezzo allenante che implica il correre a ritmo lento, ma spingendo in particolar modo con piedi e caviglie; non è una corsa balzata, in quanto il ginocchio non sale più di quanto avvenga durante la corsa lenta.
Senza dover avere un’andatura esplosiva come in questo video esplicativo (difficile da eguagliare se non si hanno caratteristiche neuromuscolari tipiche di un velocista od un saltatore), riporto sotto quelli che sono le peculiarità essenziali di questo tipo di andatura:
La spinta e l’impulso devono essere dati prevalentemente da piedi e caviglie; è importante stare con il baricentro del corpo ben sopra l’appoggio del piede e non alzare troppo il ginocchio come invece si fa nella corsa balzata.
L’intensità fisiologica e la velocità deve essere moderata, simile alla corsa lenta.
Concentrarsi sulla simmetria del gesto: i passi devono essere della stessa lunghezza e della stessa durata con entrambi i piedi
Parte superiore del corpo deve essere rilassata: è un indicatore particolarmente importante del fatto che si stia facendo bene l’esercizio.
Effettuare l’andatura possibilmente su terreno “non duro” (meglio evitare l’asfalto) ma comunque sufficientemente regolare: l’ideale è il tartan, l’erba di un campo da calcio o terra battuta.
È ovvio che se non si riescono a rispettare questi parametri è necessario desistere dall’utilizzare questo mezzo. Ma quali sono gli effetti allenanti?
È ovvio che lo stimolo principale è nei confronti delle qualità neuromuscolari (in particolar modo forza e stiffness) della muscolatura che agisce sulla reattività/spinta dei piedi e dei glutei; questi gruppi muscolari sono quelli maggiormente responsabili di una corsa “rilassata” ed efficiente. Ne consegue, che questo mezzo allenante è possibile inserirlo nella prima parte della stagione (periodo generale) evitando che venga effettuato nelle “vicinanze” di altri allenamenti neuromuscolari impegnativi come le salite brevi massimali o gli allunghi.
L’allenamento tipico può essere quello di eseguire più ripetizioni di 50-100m per arrivare ad un totale di 700-1000m (iniziare sempre con volumi minimi). Il recupero tra ogni ripetizione può essere di 2-3’ (di Corsa lenta), o comunque un tempo necessario per riuscire ad effettuare la ripetizione successiva con brillantezza. Interrompere l’esecuzione delle andature in caso di comparsa di affaticamenti o dolori.
Per aumentare il carico, è possibile aumentare il volume totale delle ripetizioni fino a 1200-1400m oppure allungare le ripetizioni (fino a 200-400m), mantenendo costante il lavoro totale. Consiglio di programmare non più di una seduta alla settimana di questo tipo.
Questo protocollo può essere inserito all’interno di una seduta di CL di 50-60’, possibilmente nella parte finale dell’allenamento. Malgrado possa sembrare poco impegnativo, sono necessari 2 giorni per recuperare questo tipo di stimoli.
Conclusioni ed applicazioni pratiche
Sotto è possibile vedere uno schema riassuntivo delle varie corse continue; le ultime 2 (Corsa media e veloce) le affronteremo nel prossimo post. Nella tabella non ho inserito volontariamente il collinare e la corsa lenta attiva perché hanno peculiarità (intensità e finalità allenanti) che esulano dalla normale codifica delle corse continue in pianura.
Tulle le indicazioni date vanno comunque contestualizzate in base a diversi fattori, come la tipologia di atleta, lo stato di forma, il grado di affaticamento, al tempo a disposizione per allenarsi, ecc. La corse continue e le sue varianti sono mezzi essenziali che, con opportune modifiche (l’abbiamo visto in questo post), possono avere uno spettro allenante molto vasto, pur modificando di poco la struttura esecutiva. Questo permette di apprendere più facilmente (e con meno errori) le varie metodiche.
Come abbiamo ribadito più volte, lo studio e la conoscenza delle metodiche di allenamento, unita alla comprensione delle proprie caratteristiche, permette all’atleta di fare scelte consapevoli ed efficienti in sede di programmazione; questo consente di essere non solo un runner migliore dal punto di vista cronometrico, ma di godersi appieno la pratica del proprio sport preferito.
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Autore dell’articolo: Luca Melli (melsh76@libero.it), istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 e preparatore atletico AC Sorbolo.