Il calcio è una giornata di festa come oggi, 25 aprile, un centro sportivo assolato, tanta gente….. E in un angolo silenzioso vicino a un campo di grano, un gruppetto di ragazzi ed un mister, legati dal loro dialogo segreto…..
Poi arriva lo spazio da percorrere delimitato dalle linee bianche. Un avversario da scavalcare per giungere tutti insieme a varcare quella rete….. Ed esultare insieme!
Non è importante un gol, una vittoria, se non si conosce il sapore amaro della sconfitta.
Per questo in certi casi ci si abbraccia tanto forte, perché tutti insieme vicini vicini, ci si sente un gruppo, perché in precedenza ad unire è stata la rabbia e la rassegnazione dell’aver perso un’altra partita.
Il calcio è poesia quando vuoi andare a salutarli e avvicinandoti allo spogliatoio, invece dei ragazzi, ci sono le loro maglie stese.
Poi li vedi uscire…. Prima in campo piccoli guerrieri, dopo con le infradito vanno a mangiare mentre scherzano e si fanno i dispetti… E respiri la loro amicizia….. E questa è poesia pura.
Poesia è il loro sguardo…..
È vederli che dopo mangiato, nell’attesa di un’altra partita, anziché riposarsi in centomila modi possibili, si mettono a giocare scalzi, su un prato d’erba adiacente al campo di calcio…
…. La porta creata dalle loro magliette…..
Come facevamo noi, quando eravamo bambini.
Poesia è vederli esultare la loro vittoria, accanto a due genitori che hanno organizzato una giornata di festa in ricordo del loro bambino: Silvio Botticelli <3
Poesia è l’abbraccio dei genitori ai loro figli…..
Poesia è un papà, che quando si veste da mister diventa papà anche dei suoi allievi….
Poesia è vederli sereni, è vederli ricchi di energia e di sogni, ma di quelli piccoli che fanno il cuore felice, come vincere una coppa a un torneo, come vincere una partita su un prato scalzi e sudati…..
La poesia sono soltanto loro. Il loro mondo sommerso dietro i loro sguardi….. La loro bellezza pulita.
Grazie ragazzi!!!! Oggi mi avete fatto vivere le emozioni che gli istruttori di calcio che conosco in tutta Italia cercano di spiegarmi e che palpo dalla passione con cui mi chiedono pareri su Facebook o nella posta privata, sulla mia mail, o su questo blog….. Mi sento fortunata per questo! Amici allenatori siete fortunati anche voi!
Grazie al gruppo 2002 e al loro mister Roberto Babini per avermi permesso questo!!!
Grazie ai genitori che hanno condiviso con me la tribuna!
Salve a tutti, sono un bambino del XXI secolo, voglio raccontarvi una storia …
In questo strano mondo del calcio (giovanile) troppo spesso si condanna preventivamente la figura del ‘genitore-papà’ reo sempre e comunque di tutti i comportamenti negativi diretti o indiretti veicolati al proprio figlio.
Non nego, anzi avvaloro, l’enorme danno che tanti papà (molti dei quali coscienti del proprio delirio personale) arrecano ai propri figli tramite atteggiamenti infantili e gesti inconsulti …
La premessa è d’obbligo, d’altronde se l’Italia è conosciuta, anche, per essere ‘la patria dei 60 milioni di allenatori’ (una delle tante medaglie del Bel Paese …) un motivo per queste strambe deviazioni identitarie dovrà pur esserci …
Nei famosi 60 milioni, ovviamente, come avrete capito, non possono non esserci, anche, le tante mamme che accorrono spasmodicamente al ’capezzale ludico’ dei propri cuccioli …
E’ inutile ma obbligatorio visti i tempi, rilevare di non voler fare di tutta l’erba un fascio, ma è inevitabile ricorrere a questa sottolineatura per evitare di incorrere nelle sabbie mobili del populismo (becero) da quattro soldi.
Cara mamma, è inutile che tu stia lì a guardarmi ore e ore … sarebbe più opportuno che tu mi aspettassi a casa, come facevano le nonne di oggi con i figli di allora: VOI, i genitori moderni …
Non è necessario che tu venga a fare una sfilata di moda a ogni partita che gioco … e butta quella sigaretta ché ti fa male …
La mamma, nel XX secolo, era di solito a casa, non s’interessava di quello che non conosceva (il calcio)… per indole, riteneva il gioco del calcio un esercizio noioso e incomprensibile!
Faceva da mangiare: il ragù cuoceva per oltre 3 ore … oggi dispensa consigli e varianti tattiche secondo quello che le ‘passa’ per l’emisfero destro del proprio cervello …[citazione scientifica: nel cervello femminile, il corpo calloso (una struttura composta da fibre nervose che connettono l’emisfero di destra con quello di sinistra) è molto più complesso. Nella donna, quindi, i due emisferi comunicano più facilmente tra loro.
Conseguenze? L’uomo tende a elaborare la realtà basandosi soprattutto sull’emisfero sinistro, razionale, logico e rigidamente lineare. La donna utilizza in misura maggiore l’emisfero destro che permette di compiere operazioni mentali in parallelo, ed è più legato alla sfera emozionale e al linguaggio analogico.]
Secondo la scienza, quindi, la donna sarebbe addirittura sprecata nel seguire l’andamento irregolare e poco ortodosso di una sfera presa a calci!
Capito mamma? Ci sono cose appropriate per ogni emisfero … non è un discorso sessista e non deve neanche sembrare una forzatura alla quotidianità cui ci stiamo abituando …
“Mio figlio deve giocare dietro, davanti deve giocare quell’altro … mio figlio non può giocare in porta: è sprecato …” Musica e parole ‘rubate’ ai papà (l’altro emisfero dei milioni di allenatori) sciorinate a uso e consumo della platea (ipocrita) compiacente che le deglutisce senza soluzione di continuità …
Cari genitori, non è bello vedervi dietro le reti di recinzione come foste delle scimmie allo zoo in cerca della nocciolina che in questo caso sarebbe un mio gol … mio e solo mio, sconfessando la natura primordiale del gioco del calcio che nasce come gioco di squadra!
Commentate sacentemente, e di solito senza le basi del mestiere, la prestazione di questo o quel bambino … ritenendolo più o meno pronto per entrare a far parte del primo o del secondo gruppo …
La moda del momento è: parlare di bambini più o meno pronti, è il nuovo modo di giudicare, senza infierire più di tanto, sulle qualità ‘calcistiche’ di bambini di 10 anni …
Non si usa più il termine ‘bravo’ o ‘pippa’… Si è trovato un modo politically correct per definire un bambino in rampa di lancio, o meno, per l’universo indefinito del professionismo …
Lo stratagemma è chiaro: ‘c’è una speranza per tutti’! Con la celata approvazione di chi gestisce il sistema…
Se, cari Mamma e Papà non siete riusciti a imporvi, ai vostri tempi, nello sport (sempre che ci abbiate provato), non è detto che debba riuscirci IO … è vero che oggigiorno è sempre più difficile trovare lavoro e che diventare famosi e ricchi aprirebbe a me, e forse anche a voi, prospettive di vita fantasmagoriche … ma penso che dobbiate darvi, TUTTI, una ridimensionata così da permettere a noi bambini di ritagliarci qualche ora di svago in questa vita frenetica che anche a noi, a 10 anni, cerca di rubare la spensieratezza che voi avete perso e che sembra non vogliate concederci col vostro atteggiamento …
Ok mamma? Non te la prendere … e se non ti senti parte integrante di questo quadro che ho descritto, ti dedico queste ultime righe …
“Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice “non urli, non è mica la prima”.Imparano a cantare piangendo, a sciare con le ossa rotte.”
E’ tempo di tornei giovanili e di genitori appollaiati in tribuna o appoggiati alle reti dei campi sportivi ad incitare e sostenere i propri figli o nipoti impegnati nel loro sport preferito (?). E’ tema attuale l’analisi, proposta e riproposta, dei vari atteggiamenti di chi è genitore, nei confronti di chi dovrebbe correre dietro a un pallone con l’unico fine di divertirsi sognando senza vincoli e obblighi: il giovane calciatore.
In questo specifico articolo viene proposto del materiale, destinato ai genitori dei bambini che si iscrivono ad una nuova stagione di Scuola Calcio, allo scopo di coinvolgerli nel proponimento di quei tecnici che intendono rapportarsi ai giovani atleti con un diverso criterio, rispetto a quello largamente condiviso per cui il settore giovanile è valutato con gli stessi canoni del calcio degli adulti. Si tratta di un approccio che aderisce ad una concezione ludica dello sport e rispetta ciò che viene riportato dalla “Carta dei diritti del bambino”.
È difficile per un genitore osservare il proprio figlio mentre corre in un campo da gioco e non avere il batticuore, quando tocca la palla e per un momento diviene il protagonista. In un attimo scorrono davanti ai suoi occhi una serie di frammenti di vita, tra cui l’emozione di trovarsi lui stesso, ancora bambino, a governare una situazione di gioco condivisa da un gruppo, non necessariamente legata al calcio, con degli avversari da superare ed i compagni attorno che si affidano a te. Ed ora è il proprio figlio che si imbatte in una situazione analoga, tale da rappresentare la vita stessa, fatta di mete condivise e di ostacoli da superare. Lui in mezzo al campo a giocarsi la sua partita.
Non esistono altri genitori, non esiste l’allenatore, né il resto della squadra, ma si vede solo lui, quel figlio e tutto il resto che gli gira attorno, come se si trattasse di una condizione inscenata per fargli da sfondo. Tale figlio, vissuto come il centro dell’universo, attiva una miriade di emozioni, che partono dall’amore più grande e che per tale ragione sono legittime e comuni a tutti i genitori, ma che inconsapevolmente possono trasformarsi in emozioni fuorvianti, quando le fantasie che si legano a queste si scontrano con una realtà ben diversa. Così il genitore che si aspetta la vittoria per esultare assieme al figlio, può non riconoscere che la partita è stata persa perché la squadra avversaria ha compiuto una prestazione migliore e dà la colpa all’arbitro, all’allenatore, senza riconoscere che le proteste nascondono la rabbia di non aver visto il figlio vincere.
Spesso, eventi come questi accadono perché il genitore oltre a dimenticare che il calcio giovanile è prima di tutto un gioco, non è a conoscenza delle dinamiche che questo sport attiva e che possono involontariamente coinvolgerlo senza rendersene conto. Egli non sa a cosa portano le emozioni provate al bordo campo, se non sono ben dosate e gestite.
I suggerimenti che seguono sono diretti a quei genitori che, attraverso la conoscenza di certi meccanismi, intendono emozionarsi di fronte al proprio figlio che gioca, andando oltre il ruolo di semplice spettatore.
Quei genitori che accettano di farsi coinvolgere attivamente nello sport del figlio, adoperando l’energia che accumulano nel seguire i suoi eventi calcistici, non per sbraitare dalla tribuna o per criticare fuori gli spogliatoi, ma per cercare di proporsi al loro giovane atleta come un valido sostegno in ogni esperienza che compie, lungo il cammino che lo condurrà a diventare il futuro uomo di domani.
Insegnare al proprio figlio a tollerare la frustrazione
Ogni genitore per il proprio figlio vorrebbe il meglio e se fosse possibile gli eviterebbe di imbattersi in qualsiasi esperienza negativa. Semplicemente perché lo ama molto. Ma proprio per questo, bisogna avere la forza di fargli sperimentare, oltre alle cose belle, le delusioni e le esperienze problematiche.
A tale proposito, il calcio oltre a permettere al bambino di fare esperienza di una serie di eventi positivi, da l’opportunità di cimentarsi nella sconfitta, attraverso la partita persa, i rimproveri del compagno, il gol subito o la mancata convocazione. Anche se per ogni genitore è doloroso vedere il proprio figlio deprimersi o soffrire per ciò che sta vivendo, è importante insegnargli che bisogna tollerare i momenti difficili, perché con questa esperienza si propone al bambino l’opportunità di trovare la strategia personale per reagire alle situazioni stressanti della quotidianità.
Se non si insegna ai propri figli che le cose non vanno sempre come si desidera, da adulti non saranno in grado di farlo da soli. Quindi bisogna sostenerli a sopportare una delusione che viene dall’esterno, guardando con ottimismo alle opportunità future di riscattarsi, suggerendogli in questo modo una strategia per non sentirsi sopraffatti dagli eventi. Il calcio dà l’opportunità ad un bambino di fare questo tipo di esperienza, bisogna sostenerlo e spiegargli con amore che più si imparano a sopportare le sconfitte più ci si rafforza, ma prima è necessario che sia convinto di questo il genitore che suggerisce il messaggio.
Distinguere se stesso dal proprio figlio
Spesso il proprio figlio è vissuto come un prolungamento di se stessi. Questo atteggiamento, spontaneo e non controllabile, è la conseguenza della tendenza dell’essere umano a vedere una parte di sé nel bambino che mette al mondo. Se succede di vedere piangere il proprio figlio in mezzo al campo perché ha sbagliato il rigore o ha subito un fallo, ci si sente inquieti e si può reagire in modo brusco, magari con il genitore di quel bambino autore del fallo.
Tutto ciò accade perché quell’esperienza è stata vissuta come un attacco alla parte di se stessi a cui si tiene di più, ovvero quella proiettata sul figlio. In questo senso, il genitore vive le esperienze del proprio figlio come se fosse lui a farle, recependo le sue sconfitte come se fosse lui il perdente, sovreccitandosi anche in modo troppo acceso se il figlio vince. Questo atteggiamento non passa inosservato al bambino, che è sensibile agli stati d’animo del genitore ed al modo in cui egli si comporta o parla con lui.
Se dopo aver perso la gara, vede il genitore affranto con il suo silenzio o ipercritico, oppure a seguito di una vittoria lo sente esprimere un eccesso di elogi, l’idea che si fa è che sia accettato da lui soltanto se vincente. Ciò può portarlo, nel momento in cui si appresta a disputare la gara, a concentrarsi soltanto sul tentativo di non perdere, per evitare di sopportare la delusione di vedere insoddisfatto il proprio genitore. Sarebbe invece costruttivo che si concentrasse sulla collaborazione con gli altri compagni, su ciò che gli suggerisce dalla panchina il mister e disputare la propria gara, non quella che si aspetta il genitore.
Lasciare al proprio figlio lo spazio di farsi un’idea personale degli altri e delle situazioni
Il bambino di solito, valuta le sue esperienze in base a come i genitori le vivono, in quanto non ha ancora senso critico. Se si dice al proprio figlio: “Questa maglietta ha un colore che non ti sta bene” lui molto spesso non riesce a capire che si tratta di un giudizio personale, ma pensa che in assoluto quel colore non gli stia bene.
Nel contesto dell’esperienza calcistica questo significa che dargli giudizi personali su altri calciatori, o sull’allenatore, o su un’altra squadra, potrebbe confondergli le idee, inquinando il rapporto che il bambino tenta di stabilire con gli altri.
A volte dopo una partita, il genitore, insoddisfatto del risultato o della prestazione del figlio, si mette a criticare le decisioni del mister, non rendendosi conto, per mancanza di conoscenza di questi meccanismi, che così facendo svalorizza una figura di riferimento per il figlio, discernendola di credibilità.
Inoltre, ciò può indurre il bambino, che tende ad imitare il genitore, all’abitudine di criticare tutti, proiettando spesso sugli altri il motivo di una sconfitta, o di un’ammonizione, senza riconoscere le proprie manchevolezze. In questo senso può capitare che invece di rendersi conto di non aver giocato molto bene, si dà la colpa all’arbitro, o all’allenatore, soprattutto se si assiste alle affermazioni di un genitore che non riconosce i limiti del figlio. Così facendo, si esclude al bambino l’opportunità di riflettere e capire dove si è sbagliato, traendo da ciò degli spunti di crescita.
Delegare la preparazione del figlio, esclusivamente all’allenatore
Partecipare all’attività del figlio come se si assistesse al calcio degli adulti, entusiasma e coinvolge i genitori, ma senza dubbio relega in secondo piano l’attenzione per il bambino e molto spesso incide sulla figura dell’allenatore, esponendolo a critiche e giudizi poco obbiettivi, che rischiano di demotivarlo ed interferire sul lavoro che compie con impegno e professionalità.
Di fronte a questo problema, non si può avere la pretesa di modificare una concezione del calcio che ha radici culturali profonde e largamente condivise. Bisogna tuttavia riconoscere, che spesso il genitore agisce in modo inadeguato involontariamente, perché non si rende conto che l’allenatore rappresenta per il proprio figlio una figura di riferimento importante, che il bambino tende ad idealizzare e che le critiche rivolte al tecnico possono disorientarlo. L’allenatore che lavora in una scuola calcio dovrebbe essere riconosciuto un ruolo ben diverso da quello del tecnico delle squadre che si seguono in televisione, in quanto egli è un educatore che nell’istruire allo sport, insegna al bambino ad esprimere le sue potenzialità al meglio, intendendo con queste non solo le capacità tecniche, ma la capacità di socializzazione in un gruppo, di gestire l’ansia attivata dal mettersi in gioco, la capacità di diventare autonomi negli spogliatoi, di rispettare l’autorevolezza dell’allenatore, quindi una serie di aspetti dal valore educativo utili per la crescita.
Non ci si può, quindi, limitare a valutare il suo operato esclusivamente dal numero delle vittorie e dalle sconfitte raccolte, ma bisogna predisporsi a valutare in un modo più ampio il suo lavoro ed i suoi risultati, cercando di interferire il meno possibile. In questo senso, il genitore dovrebbe essere in grado di lasciare l’allenatore libero di fare le sue scelte, anche perché se è vero che nessuno meglio del genitore conosce il proprio figlio e pur vero che nessuno meglio dell’allenatore conosce la sua squadra.
Se poi i risultati non sono soddisfacenti per il genitore, bisogna considerare che potrebbero esserlo per l’allenatore, che per esempio con una formazione alternativa mandata in campo intende, magari, sperimentare nuove potenzialità del gruppo al di là del risultato. Molto spesso, il genitore concentrato esclusivamente sul risultato, non coglie taluni aspetti e muove più o meno direttamente delle critiche, che rischiano di confondere il tecnico e ripercuotersi sull’andamento della squadra, inficiando proprio su quello a cui i genitori aspirano, ovvero veder vincere il proprio figlio.
Cercare di comprendere cosa ci si aspetta dal proprio figlio
Il comportamento del genitore a volte, senza volerlo, può indurre il figlio a pensare di non essere adeguatamente accettato se non riesce a rendere per quello che il genitore si aspetta da lui. Ciò può interferire sulla concentrazione dell’atleta e soprattutto rappresenta uno dei fattori che attivano l’ansia preagonistica, che è la principale causa del calo di prestazione in campo da parte del calciatore.
Il genitore dovrebbe cercare di rendersi conto di quali siano le sue aspettative nei confronti del proprio figlio e quali siano le reali capacità del figlio di attuarle. Ogni bambino ha le sue preziose potenzialità e se tra queste non ci rientra la capacità di giocare bene a pallone, bisogna essere in grado di riconoscere che il proprio figlio potrebbe sentirsi molto più realizzato e sicuro di sé nell’ambito di un altro sport. A meno che non gli si faccia capire che il calcio è un gioco e che prima di tutto ci si deve divertire, in questa ottica non è necessario essere un campione per disputare una gara.
Il genitore dovrebbe sapersi concedere uno spazio di riflessione, in cui chiedersi cosa si aspetta dal proprio figlio, in questo modo potrà rendersi conto che al di là delle aspettative compensatorie per cui si desidera vedere attuare in lui quello che non si è riusciti a diventare, l’aspettativa profonda a cui ogni genitore tiene di più è senza dubbio quella di desiderare che il proprio figlio diventi un adulto sereno.
Per far si che ciò avvenga bisogna prima di tutto lasciarlo libero di essere quello che è e proporsi a lui come un valido riferimento da cui trarre conforto ma anche incitamento, controllando meglio che si può l’insidioso tentativo che a volte sfugge, di plasmarlo secondo i propri desideri.
In conclusione quel genitore che in tribuna si emoziona perché il figlio sta calciando il pallone, assieme al desiderio di vederlo vincere dovrebbe tentare di vedere la situazione con un’altra ottica, per cui incitarlo affinché non demorda nell’affrontare meglio che può l’avversario, impegnandosi con tenacia nel perseguire le direttive del mister, non abbattendosi se qualcuno più forte di lui lo contrasta.
In tal modo, il genitore diviene spettatore di un evento più soddisfacente della vittoria stessa: vedere il proprio figlio impegnato ad esprimersi al meglio indipendentemente dal risultato, dal momento che entra in campo fino al fischio finale di quella partita che è solo sua. In questo modo il giovane calciatore può gratificarsi del fatto di aver recepito non solo dall’allenatore, ma anche dal papà, o dalla mamma, l’insegnamento per cui gli avversari in campo, come le avversità nella vita, si affrontano dando il meglio di se stessi, indipendentemente da quanto si è bravi o meno a giocare a pallone.
di Isabella Gasperini
Psicologa, Psicoterapeuta, Operatrice di Training Autogeno
Questo è un articolo che ho già proposto ai tempi di una mia stagione alla corte di una squadra di un settore giovanile professionistico. Lo voglio riproporre in quanto proprio ieri, assistendo ad un incontro della categoria “Giovanissimi”, ho scoperto che il problema è sempre lo stesso, se non più rilevante!
Si dice con un po’ di sarcasmo che la squadra ideale da allenare è quella di “orfani”; beh., dopo ciò che ho visto ieri, ma soprattutto dopo ciò che ho udito, la battuta calza a pennello!!!
Claudio Damiani – Allenatore di Base
Tema quanto mai discusso, il triangolo genitore-figlio-allenatore nel mondo dello sport giovanile (ma non solo), è di rilevanza storica e attuale.
Il calcio è uno sport di squadra e come tutti gli sport di squadra si fonda su un gruppo di atleti-giocatori, diretti da uno o più tecnici.
Perché un gruppo sia sano è necessario che si basi su delle regole che da tutti devono essere rispettate.
In questi anni di militanza nel settore mi sono accorto di ragazzi (anche bravi), che hanno vissuto sin dai primi passi calcistici la culla dei complimenti perpetui dei genitori, parenti e amici (a volte anche di qualche dirigente), vivendo idolatrati all’inverosimile.
Il risultato?
La totale convinzione del bambino, poi ragazzo, di essere “invincibile”, di avere mezzi tecnici che lo possono proiettare molto presto nel calcio che conta: basta aspettare, perché prima o poi il futuro già disegnato si tramuterà in realtà.
Una situazione pericolosa che a volte porta la giovane psiche del ragazzo a dimenticare che per raggiungere il traguardo ci vuole lo sforzo, la fatica, il sacrificio: nessuno regala niente.
Il sentirsi superiore ai compagni ed essenziale per il gruppo costituisce un’errata e pericolosa impostazione della figura del ragazzo. Questo un allenatore lo sa.
Premetto senza dubbi che se la società si pone come obiettivi e la crescita dei ragazzi e il risultato sportivo, alla domenica schiero in campo la migliore formazione che ho a disposizione.
E i ragazzi che non partono tra gli undici o tra i diciotto?
Sono infortunati o malati;
sono squalificati;
hanno “saltato” il 60% delle sedute di allenamento (due su tre);
nel corso della settimana hanno dimostrato poca attenzione, scarso interesse (questi atteggiamenti molti genitori non li vedono!);
hanno mezzi tecnici o condizioni fisiche inferiori rispetto ai loro compagni (a volte non notano neanche questi importanti fattori).
Il problema sorge appunto quando, in relazione all’ultimo punto, un padre si convince o convince il figlio del contrario.
Molti genitori vivono con il desiderio che i propri figli debbano a tutti i costi diventare quello che essi non sono mai diventati in gioventù.
Ho conosciuto ragazzi che soggiogati da queste convinzioni si trovano smarriti alla prima esclusione per scelta tecnica, persi, non trovando spiegazione alcuna e dannatisi l’anima per un po’ si trovano isolati e soprattutto mal consigliati, finendo in moltissimi casi, con l’abbandonare l’attività sportiva con probabili sintomi di depressione.
Altri, più sportivamente “educati”, vivono il calcio serenamente per come deve essere vissuto; quando i genitori non mettono pressione al figlio, ovvero non gli fanno pesare la maglia dal numero dodici in su, anche il ragazzo saprà vivere la realtà dell’esclusione, la sostituzione nel modo in cui deve essere vissuta, ovvero con delusione ma non con rassegnazione, anzi.
In molti casi vengono scatenate delle polemiche tra genitori e società che non hanno motivo di nascere se non dalla rabbia di un padre o di una madre che non si capacitano del fatto che il proprio erede palesa dei limiti rispetto ai compagni di squadra e per questo gioca di meno. (Attenzione: gioca di meno, non ho detto non gioca!).
E sono a dir poco inquietanti e ridicole le antipatie che si creano tra nuclei famigliari ai bordi del campo dipendenti unicamente dal fatto che un ragazzo sia più titolare o meno rispetto ad un altro.
A volte, sembra paradossale, sono solo i genitori a “soffrire” la panchina del figlio, quando questi se ne sta tranquillamente seduto al fianco del mister a incitare i compagni vivendo lo sport come deve essere vissuto!
Senza voler fare di tutta l’erba un fascio intendo affermare che vi sono anche ragazzini “educati” a saper vincere e perdere, a non esaltarsi per le vittorie, ma anche a non abbattersi per delle sconfitte, a “digerire” le esclusioni e a non sentirsi “onnipotente”.
E questo tipo di educazione a chi spetta, chi la deve impartire?
L’allenatore, coadiuvato dalla società, ha il compito di educare allo sport, a insegnare i comportamenti da assumere in virtù delle attività da svolgere in campo (allenamenti, gare, vittorie, sconfitte, ecc.); egli ha altresì l’obbligo di correggere eventuali poco consoni atteggiamenti che avvengono al di fuori del rettangolo di gioco: in trasferta, all’interno dello spogliatoio, nei mezzi pubblici ecc.
Per educazione sportiva s’intende il miglioramento psicologico, tecnico-tattico del giovane atleta, l’insegnamento della sconfitta, della vittoria, dell’esclusione, della sostituzione nonché il rendere il gruppo consapevole che le regole sono uguali per tutti e le scelte le fa esclusivamente l’allenatore.
D’altra parte è messo lì per quello, e comunque, da quando il calcio è calcio l’allenatore è sempre stato a disposizione dei giocatori per uno o più eventuali dialoghi di chiarimento che, attenzione, non è detto debbano essere necessariamente di natura tecnico-tattica.
Bisogna però ricordare che la crescita di un ragazzo che vuole giocare a calcio o fare qualsiasi sport dipende in modo più che importante dall’educazione di base impartita dalle famiglie sin dal primo giorno di nascita del proprio figlio.
Concludo affermando che in una squadra di calcio, ogni domenica ci sono undici ragazzi contenti e sette ragazzi meno contenti; tra questi ultimi sette ce ne saranno sicuramente due o tre anche molto arrabbiati.
E’ normale: se non fosse così ci troveremmo a guidare delle squadre prive d’anima.
L’importante è prendere l’esclusione come motivo di rivalsa più che come motivo di resa e noi genitori questo abbiamo il dovere di insegnarlo!